Il cielo sopra Chiampo

Tra le cose essenziali che, quasi senza farsi notare, spariscono, era finita anche la poesia di Giacomo Zanella.

Che nessuno leggeva più nemmeno quando veniva pubblicata in grande veste editoriale ma in piccolo corredo di chiose per i cent’anni della morte da uno dei migliori editori italiani del secolo scorso. L’edizione del 1988, infatti, per i tipi della Neri Pozza, preziosa e integrale ma priva di note e con minimi apparati critici, aveva sortito l’effetto opposto, ma non raro, di far sparire la poesia di Zanella nel momento in cui essa veniva riproposta all’attenzione dei lettori. Volendo, cioè, farne memoria, si era finiti per archiviarla, che è un modo ordinato di far sparire le parole e quanto esse di essenziale ci rivelano.

Così dell’opera di Zanella c’erano i libri, ma non i lettori, così come sotto il cielo di Chiampo e del Vicentino ci sono strade e piazze e istituti vari che portano il suo nome senza che nessuno tra coloro che passano per quelle strade e piazze e istituti vari conosca la sua opera.

Zanella era sparito inizialmente nella nomea di poeta difficile, poi nel giudizio di poeta non essenziale. Un processo che è durato quasi cinquant’anni, dall’anniversario del centenario della sua morte a oggi, anniversario del bicentenario della sua nascita. Senza farsi notare, dicevamo, Zanella era diventato un impersonale nome civico, al pari dei numeri.

Comunque sia, parafrasando l’inizio della cosmologia di Arato, è un dato di fatto che ancora oggi piene di Lui siano tutte le vie, tutte le piazze… ovunque ci sia il suo nome… Arato spiega questa onnipresenza con le parole più vere, “infatti siamo una stirpe”.

Ecco il punto, volenti o nolenti, consapevoli o meno, siamo una stirpe. Cioè siamo gente che ha qualcosa di essenziale in comune, che si chiama storia, paesaggio, sangue e sentire, che ci fa essere quello che noi siamo. Tanto che, con intelligenza, ricordiamo questo profondo legame che ci accomuna fin nelle azioni più superficiali della nostra vita di tutti i giorni, come il passare per una via, per una piazza intitolata, appunto, a chi, come Zanella, ha dato parole e pensieri alle persone da cui discendiamo, ai fatti che hanno determinato il nostro presente, ai luoghi in cui noi, come lui, siamo nati e cresciuti. Il non essenziale e l’archiviabile Zanella ha quindi prodotto quella poesia che, prima tra le opere dell’uomo, ci dà prova di essere una stirpe. Zanella è stato tra i cantori di quello che noi siamo. Se, in senso ampio, possiamo pensare al nostro essere italiani, per la lingua che usa e per certi temi di storia nazionale che affronta, in senso esatto, la stirpe è quella vicentina, di Chiampo e di Cavazzale, l’alfa e l’omega della sua esistenza.

Affatto archiviabile, quindi, è la poesia zanelliana. Eppure quello che è accaduto per la sua poesia, sta accadendo per la poesia in sé. Che sta sparendo tra le cose non essenziali. Questo non significa che non saremo più una stirpe. Avremo ancora e sempre qualcosa che ci accomunerà ma è evidente che di questo passo finiremo per essere una stirpe in Google e, allora, saremo uomini di una stirpe indifferenziata. Il cielo sarà uguale ovunque. Non riconosceremo più il nostro, quello veneto, serenissimo, rosa-celeste degli affreschi del Tiepolo o, come ci svela Mario Bardin, il cielo di “agili nubi” dello Zanella.

Da oltre trent’anni Mario Bardin s’interessa all’opera del poeta di Chiampo. L’aveva scoperta, come tutti, a scuola, quando ancora la si leggeva, con orgoglio vicentino, dopo quella del trentino Prati e prima di quella del grande padre della Patria, Carducci, primo italiano ad essere insignito del premio Nobel. Faceva sempre un certo effetto aprire le antologie scolastiche e trovarvi “tra cotanto senno” un poeta che era nato qui o, al più, per i non chiampesi, nella valle di là. Poi, nel caso di Bardin, che è nato a Schio, ci fu anche una giovanile gita scolastica alla Pieve della città natale di Zanella con la scoperta che la mamma dello Zanella era, invece, anch’ella di Schio, fino all’accidente, questo davvero decisivo, di assumere la sua prima condotta di medico proprio a Chiampo, da cui, poi, non si sarebbe più allontanato. Una specie di gioco chiastico tra paesi natali e paesi di vita lega Bardin a Zanella. Era inevitabile che negli anni i libri di Zanella sarebbero diventati sempre più numerosi in casa Bardin, dimora su cui ritorneremo per la sua eccezionalità anche in relazione alla poetica zanelliana, e con essi l’impegno di penetrare il suo pensiero. Il primo approfondimento post scolastico, dunque, risale agli anni novanta, quando Bardin e gli amici del Gruppo fotografico accompagnano la proiezione delle loro foto con la lettura di una ventina di sonetti di Zanella oltre all’ode suprema, “Sopra una conchiglia fossile nel mio studio”. Si trattava, tuttavia, di un avvicinamento libero. Le immagini non illustravano il testo, né, viceversa, le parole spiegavano le foto. Erano qualcosa di disgiunto, tuttavia quella fu l’occasione di avvicinarsi alla sua poesia in modo diverso da come solitamente si fa a scuola, quando la si legge in sé e per sé, al più confrontandola con altri versi letti sempre nello stesso modo autoreferenziale proprio dell’esercizio letterario. Quella pertanto fu l’occasione di mettere alla prova i sonetti di Zanella con i nostri tempi, esponendoli in una lettura pubblica a Chiampo, dopo che il centenario della morte era trascorso quasi senza lasciare traccia, se si considera che nemmeno nella biblioteca cittadina avevano trovato posto i volumi della sua opera omnia che erano stati pubblicati anche con il contributo della stessa Amministrazione cittadina.

Zanella stava sparendo, inesorabilmente, tra le cose non essenziali. Dopo quella forse un po’ timida proposta, quasi un esperimento, del Gruppo fotografico, per un decennio e oltre, nessuno parla più di lui. Né a Chiampo, né a Vicenza; una volta l’anno, invero, si fa il suo nome a Cavazzale nell’omonimo premio, giunto meritatamente alla XVII edizione e accompagnato da specifiche pubblicazioni. Per il resto è silenzio. Poi, ancora una volta in casa Bardin, accade qualcosa. Alcuni amici maturano l’idea di mettere in scena il poemetto “Milton e Galileo”. Lo fanno per loro stessi e per altri amici a cui lo propongono come momento di uno stare assieme colto e arricchente. Bardin scrive la sceneggiatura, “volgarizzando”, come lui dice, il testo zanelliano; gli amici studiano le parti assegnate a ciascuno per esporle, poi, in una lettura espressiva. Dietro alla scelta del poemetto c’è, tuttavia, qualcosa da capire. Com’è noto, qui Zanella affronta le affinità umane tra scienza e poesia e religione. Come egli stesso spiega nella dedica a Fedele Lampertico, il vecchio Galilei, il “Toscano geometra”, servendosi del telescopio, sua prodigiosa invenzione, mostra al giovane poeta inglese lo spettacolo allora nuovo della luna perché possa nascere in un’anima sensibile come la sua quel sentimento da cui origina la poesia. La proposta di Bardin, allora, di lavorare sul poemetto, mentre egli stava studiando la più articolata silloge “Astichello”, sembra quasi assumere la duplice funzione di preparare, da un lato, gli amici a quello che sarebbe stato il vero e ben più ostico incontro con l’opera zanelliana e, dall’altro, di dare a loro il senso dell’operazione che si stava proponendo attraverso quella che di fatto pare un’autodichiarazione d’identità dello stesso Bardin, medico e quindi uomo di scienza, ma, come tutti i veri medici, anche umanista e quindi anima sensibile all’arte. Lo Zanella di Bardin infatti è, come vedremo, uno Zanella diverso da quello proposto finora dalle accademie. È uno Zanella totalmente nuovo e sorprendente.

Il testo, dicevamo, adattato del “Milton e Galileo” funziona. Tra le mura domestiche viene presentato in più occasioni e ogni volta riesce sempre meglio tanto che si decide di proporlo anche in pubblico, a Chiampo prima in Auditorium comunale e poi davanti alla Grotta di Lourdes, quindi a Montecchio, a Villa Cordellina. Inoltre, quasi prolegomeni zanelliani, Bardin e amici rappresentano la trilogia tebana di Sofocle nell’affascinante giardino rinascimentale di villa Capra-Puglisi di Chiampo e nella corte della Ca’ d’oro, la cinquecentesca dimora dei conti Da Schio, a Vicenza. Poi, nell’ottobre del 2013, Bardin presenta nel salone d’onore di Villa Cordellina, sotto i cieli rosa-celesti del Tiepolo, l’opera su cui per un decennio aveva lavorato. Esce “Il mormorio dell’onda”, che raccoglie tutte le poesie contenute nell’“Astichello” corredate da quella che propriamente più che una pedissequa, scolastica parafrasi è una vera e propria traduzione dall’italiano ottocentesco e aulico di Zanella in un italiano moderno e vivace proprio del nostro tempo. Canto e controcanto, l’originale e la sua attualizzazione. Ad arricchire il tutto, Bardin compone anche alcune schede in prosa per offrire al lettore un approfondimento sui temi cari alla poesia zanelliana. Il libro ha successo. La gente lo accoglie con interesse e curiosità. Malgrado sia un tomo di quasi cinquecento pagine, esso si presta a una lettura discontinua per temi d’interesse personali, che lo rende piacevole. I più, all’oscuro dell’opera di Zanella, scoprono la sua poesia. E a Chiampo per il bicentenario della nascita del poeta, 9 settembre 2020, succede qualcosa di incredibile. Il sindaco, Matteo Macilotti, sensibile alla cultura, ordina la chiusura dell’intera via in cui il poeta è nato, dispone un grande palco per ospitare l’intervento di Mario Bardin e ben quattrocento posti a sedere. Che non bastano! L’anno dopo, quando esce il primo dei tre volumi dedicati all’intera opera poetica di Zanella a cura di Mario Bardin e voluti dall’Amministrazione cittadina con una tiratura di 800 copie, l’edizione viene presto esaurita. Delle circa quattromila famiglie che risiedono in città, una su cinque circa possiede una copia. Ne consegue che non ci sia più una via o una piazza della città, prima tra tutte quelle che portano il nome del poeta, nelle cui case non ci sia almeno un volume de “L’Opera poetica di Giacomo Zanella”.

Davvero adesso Zanella è ovunque a Chiampo con il suo pensiero sui grandi ed eterni temi sociali, “i mal conosciuti figli” del lavoro; sui centrali quesiti della scienza e su quel progresso tecnologico che avrebbe migliorato le condizioni di vita di tutti e soprattutto dei più umili; sulla religione, quella che lui chiamava la “religione materna”, quel sentimento del divino insito in ciascun uomo; sui grandi e meno grandi accadimenti della storia che hanno segnato il nostro presente; sulla vita quieta della campagna, con il suo paesaggio e i suoi corsi d’acqua, le colline e le montagne, i fiori e gli animali, i contadini e la loro esistenza semplice, di silenzio e solitudine, scandita dal suono delle “piangenti” campane…

Bardin non ha mai scritto che le poesie di Zanella sono dei capolavori della letteratura. Zanella non è un poeta primo. In migliaia di versi, i suoi endecasillabi eccelsi sono pochi e quasi mai tutti in una sola poesia. Zanella, però, ci ha fatto capire Bardin, è un poeta vero. La sua sensibilità è sincera. Le sue parole sono ispirate. I suoi pensieri sono onesti. Se nei suoi versi non c’è la bellezza suprema del nietzschiano “Grande stile”, c’è tuttavia un pensiero alto. Ed è quindi felicissima la scelta di Bardin di aver voluto non solo rendere con chiarezza esatta quanto egli dice, ma di aver voluto soprattutto dare nuovo vigore alla sua stessa poesia. Quella di Bardin è un’operazione, come anticipavamo, quasi più da medico che da letterato. Importano poco i rinvii eruditi, la metrica, la filologia; ciò che conta è aver ridato salute e, quindi, vita a un ottimo poeta della nostra terra.

Un discorso a sé, infine, meritano le prose che Bardin ha scritto a corredo dell’opera poetica di Zanella. In esse emerge una certa affinità tra i due nell’uso della tecnica del parallelismo. Zanella compose 14 studi di letteratura comparata che intitolò appunto “Paralleli letterari”, in cui confrontava poeti stranieri con poeti italiani. Bardin ha messo in parallelo i tempi di Zanella con i nostri tempi, le sue urgenze con le nostre, i suoi grandi temi con i nostri. La colpa di allotria, cioè di combinare temi tra loro distanti e diversi, che fu uno dei principali limiti che la critica evidenziò nella poesia zanelliana e che potrebbe essere rivolta anche a Bardin per aver scelto d’inserire nell’opera poetica di Zanella anche prose, appunto, di contenuto vario – storico, filosofico, politico, sociologico, artistico, musicale, ma anche scientifico e medico-sanitario – cioè tutto un sapere di natura decisamente enciclopedica, qui diventa il carattere di distinzione e qualità. La combinazione di conoscenze diverse, già zanelliana, è ciò che qualifica questo libro, oltre che a essere la cifra stilistica di Mario Bardin. Che ritroviamo nella sua casa, su una cui parete esterna si legge, ennesimo gioco di parallelismo, l’emistichio virgiliano “Datur hora quieti”, che è anche inscritto sul frontone sotto al timpano di villa Zanella a Cavazzale. Bardin ama la pluralità tematica quanto quella stilistica. La combinazione ardita degli argomenti e dei generi. La sua casa è un insieme straordinario di opere e oggetti di epoche varie, provenienti da luoghi tra loro assai lontani. Bardin è riuscito a coniugare felicemente espressioni di culture tanto differenti nel segno di un sentire che è tutto suo e che ritroviamo nella sua prosa, la quale, quasi ammiccando alla scrittura dei libretti d’opera – Bardin è un profondo conoscitore di musica – presenta continui e inattesi cambi di tono. Come quando per sintetizzare i suoi ragionamenti egli ama porre improvvise domande dirette, a cui far seguire altrettanto brevi e fulminee risposte. È un modo efficace, questo, di risolvere in poche battute le questioni molte complesse che egli pone. Ne viene un tipo di prosa che evidentemente predilige la lettura ad alta voce, quasi fosse un recitativo che aspiri a riprodurre la flessibilità e la naturalezza della lingua parlata.

Bardin è un uomo di metodo. Lo si capisce dai libri che pubblica. Egli ha ben chiaro il percorso da compiere fino all’obiettivo da raggiungere. Perché il metodo è essenzialmente disciplina, e la disciplina è la prima garanzia di un risultato. Che non va identificato con il successo e nemmeno con il riconoscimento per quello che si è fatto, ma è l’aver prodotto qualcosa di intelligente, di interessante, di ben fatto e anche di molto bello, come l’aver dato ragione di tornare a leggere una poesia che, quasi senza farsi notare, stava scomparendo.

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