Di cosa parliamo, quando parliamo di cultura?

Pubblicato in “Il segno artistico nella Valle dell’Agno”, 2019

L’eccellente diventa il permanente
Aristotele

Dopo aver vissuto in prima persona – come editore, come curatore, come autore di alcuni saggi critici – cinque dei dieci anni di cui qui si racconta la vicenda, mi sono chiesto: “cosa rimane di questa esperienza?” “Cosa sono stati questi 10 anni di Agorà per il paese di Castelgomberto e per la Valle dell’Agno?” “Il ciclo di mostre proposte ha avuto la forza di produrre contributi di studio e di critica per nuove prospettive di conoscenza degli artisti di volta in volta presentati?” Ecco le mie risposte, ovviamente, soggettive.
Certamente in provincia, ma certamente non provinciali sono stati questi dieci anni di Agorà. In provincia perché Castelgomberto, che è un comune tra i più piccoli della Valle dell’Agno, è un luogo della provincia Veneta abbastanza profonda: ha una chiesa che da poco è diventata Duomo; ha un cinematografo che è anche un teatro; ha campi da calcio e il maggiore ha un’ampia tribuna; ha un palazzetto dello sport; ha scuole, elementari e medie; ha curati giardini pubblici; ha un vivace associazionismo sportivo, sociale, culturale. C’è industria, piccola e media, e ci sono ancora fattorie e campi coltivati a frumento. Il gioiello del paese è il quattrocentesco palazzo Barbaran, oggi quasi completamente restaurato. Castelgomberto, mi pare incontrovertibile, è provincia abbastanza profonda. Tuttavia questi dieci anni di Agorà non possono dirsi per questo “provinciali”. Perché Agorà non ha scelto una via facile, seriale, copiata per la propria iniziativa culturale. Una via inautentica, chiusa, senza prospettiva. Sarebbe stato “facile” pagare il superpersonaggio, il divo nazional popolare, invitarlo all’ennesima replica del proprio “seriale” show, del quale, poi, non lasciare nulla di pubblicato, “copiando” da quello che tutti vediamo in Tv o dall’animazione culturale di qualche luogo vip del Paese. Agorà ha scelto, invece, la via più “autentica” di ogni altra: l’ancestrale conoscenza di sé, della Valle, “aprendosi” a quello che nel secolo scorso, prima, Valdagno e, poi, Trissino hanno espresso nella loro reciproca, alta proposta culturale. E lo ha fatto, Agorà, non storicizzando quei due illustri esempi, ma cercando di capire cosa quei due illustri momenti d’arte avevano generato a margine delle loro attività. Valdagno era stata la sede dei Premi Marzotto, che avevano ospitato il meglio della produzione artistica italiana ed europea negli anni della loro edizione (1950-1968). Un ventennio, circa, vissuto da capitale dell’arte. Non solo. A Valdagno era stata attiva la Scuola di pittura Marzotto (1952-1964); era stato istituito il primo liceo artistico dell’Alto vicentino, anno scolastico 1970-71, e la prima Galleria Civica della Valle dell’Agno, inaugurata nel dicembre del 1973 e attiva con mostre importanti fino al 2008, data dell’ultimo “Quaderno” pubblicato. Sempre a Valdagno, negli anni Settanta e Ottanta, operavano alcune gallerie private: l’Impronta, il Centro, la Galleria Dante, Loft Arte, Studio Zen. A Trissino, l’omonimo premio, per 24 edizioni (1968-2007), sotto la direzione artistica di Giuliano Menato, ospitò il meglio della pittura italiana contemporanea. Anche in questo caso, quasi quarant’anni vissuti da capitale dell’arte, in merito ai quali Neri Pozza si disse stupito che artisti tanto prestigiosi avessero accettato di esporre le proprie opere in un piccolo, periferico paese di provincia, per giunta, nella sede, in prestito, di un anonimo e bruttino edificio scolastico.
Castelgomberto si trova al centro della Valle. A nord ha Valdagno, a sud, Trissino. A distanza di anni da quelle prodigiose esperienze che avevano portato i grandi nomi dell’arte nella Valle dell’Agno, iscrivendola, lo ripeto con piacere, tra i luoghi primi del mondo dell’arte, Agorà ha voluto conoscere e far conoscere gli artisti che nella Valle erano cresciuti e che nel mondo dell’arte si erano affermati. Una prospettiva diversa, quindi. In senso opposto. Non più dal mondo nella Valle, ma dalla Valle al mondo. Un’operazione di completamento. La chiusura ideale di un cerchio. Una ricerca necessaria, attesa, dovuta, per un’offerta culturale autentica.
Perché questo è il punto: le attività culturali di paese, qual è quella svolta da Agorà, ma quali sono anche quelle che si tengono in tutti i centri, più o meno di provincia, più o meno vip, d’Italia, hanno in sé il rischio di fare quello che in sociologia si chiama “funzione latente”, ovvero anziché perseguire lo scopo dichiarato, inseguono una serie tutta diversa di risultati. Come a dire: si offre cultura, ma il risultato che si ottiene è altro. L’esempio che generalmente si fa in questo caso è quello della danza della pioggia dei popoli Hopi. La danza serve veramente a far piovere? Oppure danzare assieme per invocare la pioggia serve ad altro. A tenersi uniti, per esempio, a fare “società”?
Per quanto gli Hopi, come ha scritto D.H. Lawrence in Mornings in Mexico, credevano al principio del “tutto vive” e non, come noi, del “tutto va costruito”, per cui dove noi facciamo acquedotti e dighe per proteggerci dalla siccità, loro invocano la pioggia come essere vivente per esseri viventi, è chiaro che ai nostri occhi la danza della pioggia non si spiega con l’intento di far piovere, ma per la funzione di avvicinare, far partecipare, integrare individui a una data comunità sociale. È questo allora che si fa, quando si fa cultura pubblica? Si anima un paese? Si avvicinano persone diverse? Le si fanno partecipare allo scopo di farle sentire comunità con il pretesto di dar loro cultura? Dove, però, la conoscenza della proposta culturale, come la pioggia, non è detto che arrivi? Nel caso, le sagre di contrada non fanno qualcosa di tanto diverso di certi eventi culturali dei luoghi vip di villeggiatura.
In questi dieci anni, lo dico senza incertezze, Agorà ha fatto cultura. Ne sono prova, oltre il campo d’indagine da essa trattato e qui sopra esposto, “e questo uno/ è tal, che li altri non sono il centesmo”, le cinque monografie realizzate con testi critici originali. Lasciar scritto è operazione decisiva, è, per riprendere l’immagine della danza della pioggia, l’acqua che davvero cade dal cielo per dissetare gli Hopi, soprattutto, poi, se alcune di queste pagine costituiscono oggettivamente nuove letture critiche da tempo attese, quali: la prima interpretazione storico-artistica del trentennale “silenzio” di Franco Meneguzzo, che consente la sua definitiva collocazione nella storia dell’arte del Novecento; la prima mostra e il primo catalogo dedicati all’opera di Giorgio Guasina; la prima monografia su Nicoletta Maria Fortuna; la prima riflessione sulla scultura pubblica di Pino Castagna; la prima periodizzazione storico-artistica dell’opera di Sergio Zen e la pubblicazione, da lui stesso autorizzata, dell’edizione critica della sua opera omnia; l’inizio del più completo studio dedicato ai quarant’anni di attività di Gibo Perlotto e poi approfondimenti su Marisa Gramola, Lorenzo Lovo, Alfonso Fortuna; Pietro Tracca, Luigino Galiotto, Angiolo Montagna. Chi avesse voluto e vuole cercare arte e cultura, in Agorà e nel suo decennio di attività ne trova. Coerentemente anche questo volume commemorativo, che come tale avrebbe potuto danzare leggero (da evento vip, ovvero, facendo intrattenimento o sagra, cioè aggregazione, senza necessariamente far piovere), propone in appendice schede originali sulla poetica degli artisti di volta in volta presentati, scritte con il piglio di chi ha davvero qualcosa da dire e vuole “far vedere” con chiarezza il valore di ciò di cui parla, senza cedere a quella “prosa dai vetri appannati” (Carver) così frequente tra la critica d’arte. Sono dodici schede più una, dedicata ad Alberto Corrà, il quale, già allievo tra i maggiori della Scuola di Pittura Marzotto, chiude compiutamente questa decennale riflessione su settant’anni di “Segno artistico nella Valle dell’Agno”.
Se, allora e daccapo, quello che ha fatto Agorà non è stato nulla di provinciale, anche se tutto indubbiamente si è svolto in provincia, in quella provincia, da noi amatissima e irrinunciabile, che agli occhi dell’intellettuale cosmopolita come del cittadino metropolitano è da sempre considerata come l’equivalente della caverna di Platone, arci metafora della condizione dell’uomo incatenato nell’oscurità della non conoscenza, delle non possibilità, Agorà, offrendo a Castelgomberto cultura, ovvero “la verità (che) vi farà liberi” (Gv. 8,32), cioè senza più catene, ha reso la Valle, come da settant’anni e ancora, un luogo in cui l’arte vive, in cui l’eccellenza continua a essere permanenza, un luogo di verità e libertà.

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