Affinità elettive

Pubblicato in “Montagne 360, la rivista del Club alpino italiano”, gennaio 2019

Sciare è come scrivere, si agisce sul campo bianco e si lascia una traccia: similitudini che avvicinano due attività che, durante la loro storia, si sono compenetrate, grazie per esempio a Conan Doyl e a Hermann Hesse

Si dice che sciare sia un po’ un modo di scrivere e che, viceversa, scrivere sia un po’ come sciare. La similitudine verte su alcuni elementi oggettivi di affinità: il campo bianco su cui si agisce, la traccia che si lascia, che racconta sempre un divenire dall’alto delle grandi attese del nostro inizio, foglio o pista, al fondo della nostra fine corsa, vissuto come un’immortale Alice nel paese delle meraviglie in cui ci chiediamo se ogni frase scritta, ogni curva fatta non potevano essere decisamente migliori di come in effetti sono venute.

LO POETICA ROMANTICA
Tutti i pionieri dello sci hanno scritto almeno un libro e tanti tra i maggiori scrittori del Novecento sono stati affascinati dall’argomento sci. Tuttavia se i primi, da Nansen a Lunn, sono stati autori di testi prevalentemente di storia, di tecnica e d’imprese sciistiche, i secondi sono stati esclusivamente autori di racconti. Nessuno nel Ventesimo secolo ha scritto un romanzo che avesse per argomento o contesto lo sci, quasi il tema si prestasse soltanto al genere breve del narrare e non a quello ampio, proprio del romanzo. La ragione non dipende dallo sci che ha in sé tutti gli argomenti umani per introdurci nel mistero dell’esistenza attraverso una narrazione a grande respiro, ma da una sorta di limite estetico del contesto sci, che i letterati del Novecento hanno sentito come condizionante al punto di evitare di cimentarsi nel “romanzo sciistico”.
Lo sci, nato 6500 anni fa e nominato dagli antichi greci, Senofonte e Strabone, e da colti ecclesiasti del Cinque-Seicento, Magnus e Negri, si è diffuso tra gli uomini di lettere solo con la pubblicazione del libro di Nansen alla fine dell’Ottocento. Fu Arthur Conan Doyle il primo scrittore che si avvicinò allo sci; Hermann Hesse, il secondo. Doyle scrisse un articolo, pubblicato sullo Strand Magazine, dedicato all’impresa del superamento del passo Furka (2245 m) che separa Davos da Arosa; Hesse, una serie di lettere agli amici in cui raccontava con parole d’entusiasmo la sua nuova passione per lo sci. Non è evidentemente ancora letteratura. Sono solo testi composti da scrittori, ma senza quel carattere di finzione narrativa e d’invenzione stilistica proprio della scrittura letteraria. Il primo a fare letteratura ricorrendo all’argomento sci è stato Guido Gozzano con il racconto “Le gemelle” del 1919. Poi lo seguiranno Nabokov, Mann, Hemingway fino ad arrivare a Calvino, Parise, Rigoni Stern e pochi altri ancora. In tutti i casi si tratta di racconti. Non c’è un romanzo che abbia per contesto lo sci e questo perché il romanzo del Novecento, come d’altro canto la poesia del Novecento, ma anche l’arte, la musica, il teatro, il cinema, è romanzo di cultura. Ovvero la cultura è il vero contenuto della narrazione, quando nel secolo precedente, l’Ottocento, il contenuto dell’arte era la natura. Lo sci era una “scoperta” dell’ultimo scorcio dell’Ottocento. Era sentito come una propaggine della letteratura di montagna. Era, soprattutto, “natura” per l’azione sciistica, che poteva svolgersi ed essere raccontata solo in un contesto fortemente naturale. Questi tre elementi, la nascita ottocentesca, l’essere appendice alla letteratura di montagna, la dominanza dell’elemento naturale, fecero sì che lo sci fosse percepito come un tema affine a una poetica romantica, la più lontana dalla sensibilità degli scrittori del Novecento. I quali non poterono che limitarsi al “racconto sciistico”, al respiro breve della narrazione dello sci, più controllabile perché più sorvegliabile dalle insidie delle tentazioni romantiche che l’argomento in sé conteneva, quali, su tutte, un certo descrizionismo stereotipato del villaggio alpino immerso nella neve, con le slitte trainate da robusti cavalli, su cui floride ragazze dalle gote inevitabilmente rosse e lentigginose lanciavano furtivi sguardi allo sciatore foresto che era salito dalla città in montagna alla ricerca, tra un’ardita discesa e l’altra, di se stesso. In questo senso nessun autore del Novecento scrisse un romanzo sullo sci. (Il primo tentativo di “romanzo sciistico” è del 2009).
Eppure lo sci ha avuto un inizio, nella notte dei tempi, assolutamente identico all’inizio della nostra civiltà del fuoco e della conoscenza, trasmessa attraverso la narrazione. Quattromila e cinquecento anni prima della nascita di Cristo un coraggioso abitatore del nord per attraversare una palude ghiacciata che verosimilmente si stava sciogliendo, si mise in piedi su una canoa, come oggi fanno i gondolieri di Venezia. Qualcuno dallo spirito ingegneristico lo vide, intuendo che si poteva realizzare qualcosa di specifico per scivolare sull’acqua quando questa fosse ghiacciata. Poi un artista, colpito dalla meraviglia di scivolare veloci sulla neve, scolpì sulla roccia la geniale invenzione, facendola così bene e così bella che gli abitanti dei villaggi vicini si recarono prima ad ammirarla e poi a studiarla per comprendere quali benefici avesse l’uomo con due enormi calzari ai piedi. Fu subito chiaro che con gli sci sarebbe stato più facile spostarsi sulla tundra ghiacciata e così cacciare d’inverno come prima non era possibile. L’uomo del nord capì che gli sci gli avrebbero dato una nuova confidenza con l’ambiente innevato che per lunghi mesi ne limitava l’azione.
La nostra civiltà del fuoco ha lo stesso schema d’origine. Un coraggioso prende uno stizzone acceso da un fulmine caduto dal cielo sulla prateria insecchita e lo porta all’interno della caverna, in cui vive; uno spirito ingegnoso capisce che a differenza della terra, dell’acqua e dell’aria, beni di prima necessità che l’uomo non può produrre da sé, il fuoco, caduto misteriosamente dal cielo, è da lui riproducibile. Quindi un artista disegna sulle pareti della caverna la prodigiosa scoperta. Chi ammirò quei graffiti ricevette un vitale dono di conoscenza: il fuoco posto sull’uscio della caverna teneva lontano le bestie feroci, salvando la vita dei primitivi che si rifugiavano al suo interno e garantendo a noi la discendenza. Senza fuoco, senza l’intelligenza tecnica, senza l’emozione artistica e la possibilità di trasmettere conoscenza, cioè scrivere e leggere, nessuno di noi sarebbe oggi qui. Così, senza sci, senza tecnica, senza arte e la possibilità di trasmettere e acquisire conoscenza, la vita al nord sarebbe stata dura al limite della stessa sopravvivenza.
Scrivere di sci, quindi, è condizione primigenia e salvifica; di sci scrissero tutti i pionieri di questo sport per farlo conoscere, per trasmettere il prodigio e le emozioni di sciare; di sci scrissero i maggiori scrittori del Novecento dedicando a esso racconti degni della migliore letteratura.
Se oggettivamente sciare è un po’ come scrivere e scrivere è un po’ come sciare, soggettivamente crediamo che lo sia anche sotto l’aspetto stilistico, così importante per entrambi a pari modo. Sciare bene e scrivere bene è avere il piede solido e preciso nell’appoggio sulla neve, è avere la parola solida e precisa su quanto si vuole esprimere; è chiudere la curva nella completa gestione delle forze e della velocità, è chiudere la frase nella completa gestione del senso e del ritmo; è legare tra loro le curve perché la discesa sia collegata e compiuta; è legare tra loro i pensieri perché il testo sia collegato e compiuto. Piede e parola; curva e frase; discesa e testo: i tre momenti di sciare, i tre momenti dello scrivere.

UNA NUOVA CONFIDENZA CON L’AMBIENTE
Eppure lo sci ha avuto un inizio, nella notte dei tempi, assolutamente identico all’inizio della nostra civiltà del fuoco e della conoscenza, trasmessa attraverso la narrazione. Quattromila e cinquecento anni prima della nascita di Cristo un coraggioso abitatore del nord per attraversare una palude ghiacciata che verosimilmente si stava sciogliendo, si mise in piedi su una canoa, come oggi fanno i gondolieri di Venezia. Qualcuno dallo spirito ingegneristico lo vide, intuendo che si poteva realizzare qualcosa di specifico per scivolare sull’acqua quando questa fosse ghiacciata. Poi un artista, colpito dalla meraviglia di scivolare veloci sulla neve, scolpì sulla roccia la geniale invenzione, facendola così bene e così bella che gli abitanti dei villaggi vicini si recarono prima ad ammirarla e poi a studiarla per comprendere quali benefici avesse l’uomo con due enormi calzari ai piedi. Fu subito chiaro che con gli sci sarebbe stato più facile spostarsi sulla tundra ghiacciata e così cacciare d’inverno come prima non era possibile. L’uomo del nord capì che gli sci gli avrebbero dato una nuova confidenza con l’ambiente innevato che per lunghi mesi ne limitava l’azione.
La nostra civiltà del fuoco ha lo stesso schema d’origine. Un coraggioso prende uno stizzone acceso da un fulmine caduto dal cielo sulla prateria insecchita e lo porta all’interno della caverna, in cui vive; uno spirito ingegnoso capisce che a differenza della terra, dell’acqua e dell’aria, beni di prima necessità che l’uomo non può produrre da sé, il fuoco, caduto misteriosamente dal cielo, è da lui riproducibile. Quindi un artista disegna sulle pareti della caverna la prodigiosa scoperta. Chi ammirò quei graffiti ricevette un vitale dono di conoscenza: il fuoco posto sull’uscio della caverna teneva lontano le bestie feroci, salvando la vita dei primitivi che si rifugiavano al suo interno e garantendo a noi la discendenza. Senza fuoco, senza l’intelligenza tecnica, senza l’emozione artistica e la possibilità di trasmettere conoscenza, cioè scrivere e leggere, nessuno di noi sarebbe oggi qui. Così, senza sci, senza tecnica, senza arte e la possibilità di trasmettere e acquisire conoscenza, la vita al nord sarebbe stata dura al limite della stessa sopravvivenza.

PIEDE E PAROLA, CURVA E FRASE
Scrivere di sci, quindi, è condizione primigenia e salvifica; di sci scrissero tutti i pionieri di questo sport per farlo conoscere, per trasmettere il prodigio e le emozioni di sciare; di sci scrissero i maggiori scrittori del Novecento dedicando a esso racconti degni della migliore letteratura.
Se oggettivamente sciare è un po’ come scrivere e scrivere è un po’ come sciare, soggettivamente crediamo che lo sia anche sotto l’aspetto stilistico, così importante per entrambi a pari modo. Sciare bene e scrivere bene è avere il piede solido e preciso nell’appoggio sulla neve, è avere la parola solida e precisa su quanto si vuole esprimere; è chiudere la curva nella completa gestione delle forze e della velocità, è chiudere la frase nella completa gestione del senso e del ritmo; è legare tra loro le curve perché la discesa sia collegata e compiuta; è legare tra loro i pensieri perché il testo sia collegato e compiuto. Piede e parola; curva e frase; discesa e testo: i tre momenti di sciare, i tre momenti dello scrivere.

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