Forma mundi nelle Crepe di Gibo

Pubblicato su Marana York, maggio 2018

Solo gli isolati comunicano, Eugenio Montale

Con le Crepe, grandi lastre ferrose incrinate ciascuna con un proprio tellurico andamento, entriamo nel nucleo più profondo dell’ormai quarantennale ricerca artistica di Gibo Perlotto, in quello che è a tutti gli effetti il momento più rivelatorio delle ragioni della sua arte. Quasi le Crepe fossero, a dispetto di un’iniziale difficoltà di lettura che le altre opere iperrealiste di Gibo coerentemente non hanno, la chiave d’accesso più efficace per comprendere il suo pensiero d’arte, la sua “poetica”, il perché o i perché di tutta la sua opera. In questo senso, le Crepe non sono il punto di arrivo dell’arte gibiana, ma il momento centrale ed epifanico della sua lunga militanza artistica.
Lo si intende, innanzitutto, partendo da un dato temporale. La prima Crepa risale al 2008. In quell’anno siamo nel pieno del suo iperrealismo puro. Molte tra le sue opere più importanti del ciclo della Memoria contadina, dell’Orto, delle Carèghe, dei Libri sono già state realizzate. Nel decennio che va dal 2008 a oggi Gibo forgerà una dozzina di Crepe. Più di una l’anno. Ognuna con la propria speciale “incrinatura”. Per dieci anni, tuttavia, le Crepe rimarranno segrete. Gibo non le mostra ai suoi collezionisti, non le espone nelle varie rassegne cui partecipa, sottoponendole al giudizio della critica e del pubblico. Le Crepe rimangano nel chiuso della sua bottega, oggetti misteriosi e intimi, intrusioni involontarie che s’impongono da sé.
Così, parallelamente alla produzione delle opere che rappresentano la sua cardinale cifra di artista, ovvero le Carèghe, l’Orto, le opere del ciclo della Memoria contadina, i Cavalletti di pittura, le Metal-morfosi, i Libri, tutte sculture appartenenti rigorosamente al canone iperrealista, Gibo realizza le Crepe in una convivenza originale e, di primissimo acchito, perfino fuorviante del suo discorso artistico-stilistico: immediate e razionalissime, le prime; arcane e inconsce, le Crepe.
Sembrerebbe una contraddizione in termini, un momento conflittuale nella creazione artistica di Gibo, quasi un tentativo di scarto dal canone iperrealista, che, invece, non è. Perché le Crepe non sono un tentativo di superamento della rappresentazione del reale, una fuga dal mimetismo nell’astrazione e nelle sue possibilità metafisiche, alla ricerca di una più marcata trascendenza, ma, al contrario, sono una radicalizzazione della potenza figurativa del canone iperrealista. Le Crepe sono crepe. Vere crepe, assolutamente crepe.
Ovvero del tutto simili a quelle che si vedono sui muri delle case dismesse delle contrade abbandonate. Sono rappresentazioni, in sezione, di quelle incrinature che minacciano i muri delle case e delle stalle del Veneto rurale. Se si potesse ampliare la visione di queste incrinature con un effetto di zoom inverso, si vedrebbero il muro e le sue finestre e poi ancora il tetto e poi, allargando ulteriormente il campo visivo, la contrada, il paese e il paesaggio fino alla stessa comunità che vi abitava.
La crepa è allora il segno-ferita-denuncia dell’assenza di quella cura delle case e delle cose, della natura e dei suoi luoghi: boschi, campi, alvei d’acqua, che, nel tempo della civiltà contadina come nel mito antico di Cura fino all’accezione heideggeriana di “cura”, faceva sì che dalla terra nascesse la vita, dall’humus l’uomo, dal caos il cosmo.
Quel cosmo che era appunto il mondo valoriale dei figli della terra, ricco di forza e di lirismo, di poesia e di fede, di tradizioni e di saperi, ma anche di fatiche e di sacrifici, di onestà e semplicità, di solidità e realtà, oggi spazzato brutalmente via dalla neo stupidità digitale panterrestre, per cui alla profondità del fare si predilige la rapidità, ai sentimenti le emozioni, alle conoscenze le informazioni, agli incontri le chat, alla durata l’immediato; un mondo contadino cancellato da mille rabberciamenti di crepe, reali e simboliche, con tasselli di sassi esotici incollati o con intonaci giallo-arancione fosforescente su case, ai cui usci è scritto Antony e cognome in onore del nonno che ha fatto su la casa e si chiamava Toni.
Le Crepe di Gibo ci dicono questo. Con i Libri, con le Carèghe, con l’Orto, esse ribadiscono la sfida gibiana di sempre, quella del ferro versus pixel, dell’uomo faber, figlio della terra, versus l’uomo digitale, figlio degli algoritmi.
Gibo non ha affatto cambiato la sua visione del mondo, né ha mutato il suo linguaggio artistico. Anzi ha rafforzato, con le Crepe, l’una e l’altro. Sta decisamente qui, nella cognizione da parte dell’artista di questa radicalizzazione del suo discorso sul presente, la ragione prima di aver tenuto per sé le Crepe che da più di un decennio andava forgiando.
Se, infatti, con le opere dell’Orto, con le Carèghe, con i Libri, in genere con tutta la sua produzione artistica, Gibo innalzava un canto di lode a quella cultura e a quel lavoro della terra da cui siamo venuti e di cui, secondo Gibo, mai dovremmo dimenticare di sentirci, almeno in parte, parte, per riconoscerci uomini, con le Crepe egli va direttamente a rappresentare quelle incrinature dei muri delle case del Veneto rurale, che testimoniano l’inequivocabile minaccia di crollo di un mondo e della sua idea di uomo.
Dalla lode al grido, e per realizzare questo passaggio Gibo trova una nuova essenzialità formale. In esse ogni narrazione viene meno. Ogni impulso a dar prova delle sue speciali capacità di forgiare il ferro è controllato. Le Crepe sono solo incrinature nel ferro. Senza alcuna aggiunta. Senza alcun decoro. Tutta la Crepa è in quel “segno” lì, in quel “gesto” e nei riflessi che esso realizza nella “materia” ferro. “Segno”, “gesto”, “materia” sono le parole-chiave dell’Informale europeo degli anni Cinquanta. Evidentemente Gibo qui dichiara la sua profonda affinità con la lezione dei maestri dell’Informale italiano. Il “gesto” dei “tagli” di Fontana, la “materia” dei “creti” di Burri, il “magmatismo” delle fessure di Pomodoro sono aspetti presenti e riconoscibilissimi nelle Crepe di Gibo. E ciò avviene in compiuta sintonia con l’altra lezione, quella dinastica dei Lora-Perlotto, quella dell’arte del ferro battuto e cesellato con le proprie mani fino alla sua intima perfezione. Con le Crepe Gibo unisce i suoi maestri d’arte con i suoi maestri del ferro, e riesce a farlo continuando, anzi potenziando il suo personalissimo iperrealismo.
Ecco perché le Crepe sono il momento più rivelatorio della sua poetica. Vere e proprie dichiarazioni del suo sé artistico; ecco perché Gibo per dieci anni ne ha avuto intimo timore e pudore.
C’è un neologismo di Joyce che cerca di dirci cosa sia un’opera d’arte. È “chaosmos”. “Caos” e “cosmos” uniti assieme. L’arte come continua ricerca di piccoli, provvisori spazi cosmici nel caos infinito ed eterno del tutto. L’arte come sfida, quindi, alla condizione umana così com’è espressa nell’epistola di Paolo ai Corinzi: “conosciamo imperfettamente e imperfettamente profetiamo” (13, 8-13). Con le Crepe Gibo si è posto, più che in altre opere, la questione del “perché”, del “senso ultimo” della sua arte. Leonard Bernstein diceva che un artista, prima o poi, arriva sempre a porsi quelle domande che non hanno una risposta. Alla domanda “cos’è la musica?” Bernstein rispose: “tonale”. Alla domanda “cos’è l’arte?” Gibo risponde: “realismo”, quale autentico racconto della forma del mondo.

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