Humanitas loci

Pubblicato su Marana York, giugno 2017

Unica, la Vicentinità ha il carattere dell’”humanitas loci”. Ne parlavo in una dimenticata conferenza a villa Cordellina, sostenendo che la nostra terra non si è mai identificata nell’ingegno superiore di un solo artista, ma nelle variegate intelligenze di una vivace società artistica-intellettuale. Come a dire che Vicenza e il Vicentino non hanno mai espresso un Dante, un Leonardo, un Michelangelo, un genius loci, ma un insieme di personalità eccelse, geniali e creative che ho chiamato, in contrapposizione al concetto di “genius loci”, “humanitas loci”. Che, a mio avviso, è il carattere massimo dell’umano, perché, se il genius loci è sempre il casus unico e irripetibile, dono del cielo o della natura, di una terra, l’humanitas loci è invece l’espressione di quella che potremmo chiamare la metafisica dell’aria di un certo luogo, capace di originare una diffusa talentuosità del territorio. I tanti ingegni contrapposti all’uno, questa è la Vicentinità che ha avuto anche il pregio, nei tre momenti storici in cui essa si è espressa, di non esser mai stata “scuola” o “movimento”, ma libera unione di libere intelligenze.

Il suo primo momento fu quando nacque. Siamo attorno al 1538 e i fatti, all’incirca, molto all’incirca, devono esser stati questi. Giangiorgio Trissino, letterato e filologo, ma anche, un po’ come Leon Battista Alberti, architetto, aveva concluso da poco la sua villa di Cricoli, dove aveva apprezzato le capacità non solo tecniche ma anche intellettuali di un giovane scalpellino, Andrea de la Gondola, con il quale aveva avuto il piacere di condividere alcune soluzioni architettoniche in merito alla villa. Giangiorgio sa che Cricoli è un po’ opera di entrambi e non vuole che, finita la villa, si concluda  anche la loro proficua e piacevole frequentazione. Così una sera, ovviamente buia e tempestosa, si ritrovano assieme nella villa di Cornedo di Giangiorgio a parlare davanti al fuoco del camino, sorseggiando un buon vino, di architettura, di arte, di grandi libri, quando comprendono, nelle loro opposte condizioni, di avere lo stesso problema: il problema del nome. Giangiorgio è un conte potente e ricco, è un letterato affermato e riconosciuto in Europa, ma il suo casato, i Trissino, è da più di duecento anni diviso in varie discendenze in lotta fratricida tra loro, con le quali Giangiorgio non vuole esser confuso; Andrea, invece, che è ambizioso e ha un grande talento per il disegno, è di umilissime origini e non ha nemmeno un cognome. A volte lo chiamano aggiungendo il nome del padre per distinguerlo da altri che portano il suo stesso nome, Andrea di Pietro, altre volte invece con un soprannome collegabile al presunto lavoro del padre, Andrea de la Gondola. Per entrare nella storia, come entrambi aspirano, serve a loro un nome che li identifichi con forza. Così, nella villa di Cornedo, alla quale erano saliti nella mattinata, quando il tempo era ancora buono per vedere la valle e i suoi monti, vengono fuori, tra un bicchiere e l’altro, i due nomi che cercavano. Giangiorgio si chiamerà Trissino dal Vello d’Oro per distinguere lui e la sua progenie da quella degli altri Trissino, mentre Andrea si chiamerà come la mitologica statua greca caduta dal cielo e dedicata ad Atena, Palladio. Ma fin qui, c’è poco di nuovo. Quella sera, tra Dioniso e Apollo, Giangiorgio Trissino dal Vello d’Oro e Andrea Palladio hanno un’idea che segnerà la loro vita artistica e sociale. Fare di Vicenza la nuova Atene, del Vicentino la nuova Attica. Pensano a una città e a un contado, dove tutto esprima intelligenza e bellezza, armonia e pensiero. Non si sarebbe trattato, si dicono e si ripromettono, di imitare la classicità, ma di continuarne il discorso. Se il mondo aveva avuto inizio in Grecia; il mondo avrebbe trovato un suo nuovo inizio a Vicenza. Giangiorgio s’impegnava a coinvolgere artisti e letterati nel progetto e soprattutto le famiglie nobili per le quali Palladio avrebbe costruito palazzi e ville. E a questo proposito Palladio aveva già un interessante spunto.

Nel pomeriggio Giangiorgio gli aveva fatto visitare Valdagno. Salendo da Cornedo, esattamente dove la via per Valdagno ha un leggero dosso, aveva fermato i cavalli e gli aveva fatto notare il monte Marana, chiamandolo “il nostro Olimpo” e aggiungendo “lassù dimorano i nostri dei”. Sensibile alle forme, Andrea aveva colto la perfezione isoscelea del triangolo di monte Marana, che gli aveva richiamato quella del frontone del Partenone: i templi, per poter essere la dimora degli dei tra gli uomini, pensa mentre Giangiorgio riprende il cammino verso Valdagno, hanno in alto sulla loro facciata un triangolo che ricorda la montagna sacra dove essi dimorano. Quella sera al Trissino dirà che tutte le ville che egli disegnerà per la nuova Attica avranno sulla facciata un frontone che ricorderà la forma di Marana. E poi, quando i bicchieri di rosso cominciarono a essere un po’ troppi, s’impegna a farne una che avrà Marana su tutti e quattro i lati e “sarà perfetta”.

Da allora nelle ville-tempio del Vicentino si sono riunite le intelligenze del tempo, ognuna portatrice del proprio sapere: il letterato e il filosofo, il chimico e il medico, il viticoltore e il contadino, l’uomo di legge, il politico, il prete e lo stampatore. Nessun sapere, ma tutti i saperi; nessun genio, ma un’umanità vivace e geniale.

In altre due occasioni la Vicentinità ha fatto la storia. Negli ultimi decenni dell’Ottocento con Zanella, Fogazzaro, Todeschini, Lampertico, Rossi, Morsolin, Magrini; e in quei tre decenni che vanno dalla Resistenza agli anni Sessanta del Novecento con Antonio Pellizzari, Toni Giuriolo, Sergio Perin, Ettore Gallo, Guido Piovene, Antonio Barolini, Neri Pozza, Goffredo Parise, Luigi Meneghello, Ferdinando Bandini, Mario Rigoni Stern, Licisco Magagnato, Franco Meneguzzo, Giorgio Guasina.

Unica, la Vicentintà è humanitas loci: è questo il suo carattere.

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