A chi il pomo del campione più campione di tutti?

Pubblicato su Sportivissimo, luglio 2016

Poniamoci una di quelle domande assolute e un po’ stupide che gli antichi amavano farsi per dimostrare a loro stessi che avevano capito tutto o quasi degli uomini e della vita: “a chi, oggi, tra gli sportivi, dare il pomo del campione più campione di tutti?”
Per i lettori della Gazzetta dello Sport il campione più rappresentativo di ogni altro è Cassius Clay. Lui, il peso massimo più veloce, più forte, più provocatore della storia del ring, è l’atleta simbolo dei nostri tempi. Perché innovatore e rivoluzionario. Con i suoi pugni seppe rinnovare la boxe e mandare al tappeto il fanatismo raziale della società occidentale. Dopo di lui, il pugilato fu eleganza e potenza; dopo di lui, la società occidentale fu più tollerante e più giusta. Se il 44° presidente degli Stati Uniti è un nero, lo si deve anche a lui. Non c’è dubbio: Mohammad Alì è stato un grandissimo e quello che ha fatto nello sport e nella società sarà ricordato per sempre.
Ma Alì e le sue battaglie sono ancora attuali? La battaglia per la tolleranza sociale non è mai finita (nessuna battaglia per il miglioramento è mai finita) ma la nostra società è assai diversa da quella che in mondovisione vide il 30 ottobre del ‘74 l’incontro di kinshasa, Zaire, contro Foreman. Sono decenni che in America come da noi, i neri non debbono più sedersi negli ultimi sedili degli autobus ma dove trovano posto, Casabianca compresa.
Alì quindi è storia ma la nostra domanda, assoluta e stupida, si riferisce all’oggi: chi è nella società attuale il campione simbolo? Ecco, io dico Nico Rosberg! Che è l’esatto contrario di Alì. È Biondo, ha la pelle bianchissima, quasi lattea; è bello più di Di Caprio, cui assomiglia; vive a Montecarlo ed è pieno di soldi, ma soprattutto è un figlio di papà: fa il pilota di formula 1 come suo padre. Vince ma non ha ancora vinto il titolo mondiale come, invece, ha vinto suo padre. È lui, Nico, il campione dei campioni di oggi, sebbene nella sua vita non ci sia nulla di quella retorica sportiva che, in passato, faceva di un campione, un idolo. Non ci sono le umili origini: Alì era figlio di un pittore da strada. Non c’è la miseria degli avi: Alì aveva sangue da schiavo. Non c’è sofferenza sociale: Alì aveva subito l’emarginazione, il razzismo. Se Nico non avesse fatto il pilota di Formula Uno ma il bamboccione sarebbe stato comunque bello, ricco, con residenza a Montecarlo, figlio di un campione del mondo di Formula Uno, mentre se Alì non avesse preso a pugni la società americana, sarebbe stato un nero qualsiasi.
Così quando Alì saliva sul ring tutto il popolo afroamericano motivava i suoi pugni. Così quando Nico Rosberg sale in macchina, c’è solo lui e il fantasma del titolo di campione del mondo vinto da suo padre a fargli aprire il gas. Alì lottava per la vittoria e il riscatto di un intero popolo; Nico può solo pareggiare con la sua storia familiare. Nelle sue gesta non c’è nessuna battaglia sociale ma solo tanta comune psicologia. Ed è qui la sua grandezza e la sua attualità di campione che lotta in gara, come noi lavoriamo o studiamo, senza particolari idealismi; che vince e non si sente un dio, che perde e non si sente uno sfigato; che accetta la storia di suo padre senza sentirsi edipicamente in sfida con lui e il suo titolo mondiale; che se ne sbatte di chi lo accusa di essere stato un favorito dal cognome che ha. Nico è il simbolo della nostra società occidentale, benestante, di figli di papà, socialmente evoluta ma psicologicamente sempre alla ricerca della propria legittimazione, destinata a fare i conti con la propria storia non nei termini inebrianti della vittoria e del riscatto ma, nella più rosea delle previsioni, in quelli mediocri del pareggio e del mantenimento. Combattere per continuare a essere quello che si è, come Nico, con serenità e classe, è da numero uno dei nostri tempi.

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