La porta stretta

Pubblicato su Sciare, dicembre 2015

Chi ha fatto una gara di sci, conosce la “porta stretta”. In gigante o in slalom, in superg o in discesa una porta più stretta delle altre c’è sempre. Non c’è tracciato che ne sia escluso e quando si fa la ricognizione è fondamentale saperla riconoscere, poi, quando si scende, è ancora più importante ricordarsene. “La porta stretta” è sempre maledetta dagli sciatori e molti, perché già sanno che lì non ce la faranno a passare come vorrebbero, imprecano contro il tracciatore di non saper fare il proprio mestiere. Invece è proprio quello il momento della verità. Sulla “porta stretta” bisogna dare il meglio di noi stessi, “combattere” per la vittoria. Se si entra con i giusti spazi, con il giusto tempismo, con tutti i muscoli che spingono fino a sentir “dolore”, se si entra con “coraggio”, la velocità sarà quella massima possibile e la vittoria sarà alla nostra portata. Sto parlando di tattica che è l’uso dell’intelligenza applicata allo sci, ma sto anche servendomi di una metafora biblica che evoca la via dei cieli. Nel Vangelo di Luca (13, 24) si legge: “combattere per entrare per la porta stretta” con “coraggio” fino al “dolore” per riuscire a superarla, perché è attraverso essa, dice Luca, la via per la beatitudine. “La porta stretta” che per gli sciatori è una realtà oggettiva di ogni tracciato diventa quindi una perfetta immagine per raffigurare i passaggi obbligati e difficili della nostra vita, tanto che il filosofo Curi (“La porta stretta”, Bollati Boringhieri, 2015) l’ha usata per indicare il varco attraverso il quale dalla minorità si passa alla maturità, che è davvero uno dei passaggi più difficili e universali della condizione umana. Nella nostra cultura greco-giudaica-cristiana, scrive Curi, per diventare grandi vi sono sostanzialmente due vie: quella greca di Edipo, che prevede l’uccisione, ovviamente metaforica, del padre, e quella giudaica-cristiana di Abramo prima e di Cristo poi di totale obbedienza al Padre fino all’estremo sacrificio. Ribellione o martirio. Morte del padre oppure morte del figlio. Poiché, diceva Totò, “è la somma che fa il totale”, emanciparsi impone “a prescindere” (sempre Totò) la morte di qualcuno che nemmeno metaforicamente ci piace. Curi propone una terza via ispirata alla “mite inflessibilità” del Bartleby di Melville, che alla fin fine rinuncia, con mitezza, alla prova. Ma noi vorremmo suggerirne un’altra: “la via dello sci” quale emerge dall’esperienza di continui e reali passaggi per porte strette. Non quindi il parricidio di Edipo, eliminare la porta; né i sacrifici estremi di Abramo o di Cristo, mettersi di traverso fino a fermarsi; nemmeno però il debosciato “preferirei di no” di Bartleby che rifiuta la responsabilità di diventare adulto, ovvero far finta che la porta non ci sia, ma l’impegno e il lavoro costante in allenamento degli sciatori per imparare a superarla. “La via dello sci”, se si vuole, è “la via femminile” dell’emancipazione. La donna che è, metaforicamente, sempre la figlia del re, se ne va di casa innocente (non ha ucciso nessuno) e innamorata (non fa nessun sacrificio) con il principe azzurro per fondare una nuova casa e mettere al mondo un nuovo re. Nella maternità, che è vita che continua, la donna si emancipa e trova la sua maturità, esattamente come lo sciatore trova nel fare una discesa dopo l’altra, nell’allenamento, nell’intelligenza tattica il modo per passare con efficacia attraverso la porta stretta. Nel fare, quindi, nel creare, nelle opere, nel lavoro si realizza la via vitale e non mortale del diventare grandi, adulti e maturi.

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