Il poeta del tempo

Pubblicato su IL TEMPO DEL TEMPO CHE VERRÀ, poesie di Ignazio Palmeri

A partire dalla sua prima raccolta e poi in tutte le successive fino a quest’ultima, Ignazio Palmeri ha posto al centro del suo discorso poetico il grande tema del tempo, approfondito nelle sue tre principali accezioni: tempo come età, tempo come divenire e tempo come contenitore dell’esistenza.
Nella prima e forse più immediata definizione di tempo come età, siamo nella percezione soggettiva di esso, quella che i filosofi definiscono la nostra coscienza del tempo che è passato, del tempo che è, del tempo che verrà; nella seconda definizione, invece, la nostra prospettiva del tempo si fa oggettiva: il tempo è la vita che scorre al di fuori di noi, il tempo che fugge, che si consuma, quello che sempre i filosofi identificano in un movimento da un prima a un dopo; infine, la terza definizione vede il tempo come contenitore, come “struttura” entro la quale c’è e accade il possibile: noi, le cose, il tutto. Con la forza espressiva che appartiene alla poesia, Palmeri ci introduce in questo grande e arduo tema e lo fa in un percorso poetico esemplare, che ha il suo inizio, quasi 10 anni fa, con la sua prima raccolta ,“I sentieri dell’anima”, che è poi proseguito nelle successive raccolte, “U rrapucciaturi” e “Remando contro vento”, e che ora trova il suo vertice in quest’ultima con la felicissima dichiarazione del titolo, “Il tempo del tempo che verrà”.

Ho l’età che ignoro, ecco il tempo di cui siamo fatti, il tempo come età, primo momento della riflessione di Palmeri, già presente ne “I sentieri dell’anima”, dove il tempo era essenzialmente quello dell’infanzia vissuta nella turrita Butera e dove è la memoria la fonte d’ispirazione poetica. A questo proposito scriveva don Giovanni Storti in occasione della presentazione del libro, “è attraverso la memoria che noi apprendiamo, la memoria non risuscita soltanto, ma rilancia, fa rivivere”. Tutto questo primo libro è un’indagine sulla memoria, sul tempo ricordato che è la sorgente prima e unica della nostra vita interiore. Senza memoria, ci dice il poeta, l’anima si spegne. Sono quindi le cose che ricordiamo a dare profondità ai nostri pensieri, alla nostra stessa esistenza. Se nella prima raccolta la memoria è ancora quella della propria infanzia trascorsa nella solare Butera, sorgente inesauribile di ispirazione poetica, nella seconda raccolta, “U rrappucciatori”, la memoria da personale si fa universale, diventando quel “tesoro” di ogni uomo, come ha scritto San Tommaso, grazie al quale avviene la “conservazione della specie” (S.TH. I, q 29, a 7). “U rrapocciatori” è la geniale metafora di cui Palmeri si serve per evocare la funzione del poeta, che come uno spigolatore cerca nei campi delle nostre esistenze quell’umanità che il nostro vivere affannato e superficiale ha dimenticato, quelle briciole di sentimento che ci lasciamo ai piedi come cose di poco valore, inutili, di fronte alle logiche dominanti del profitto, dell’interesse, del denaro. Lo spigolatore-poeta raccoglie per noi, perché diventi cibo della nostra memoria, quindi della nostra vita interiore, tutto quello che senza ragione non sentiamo più nostro: le voci antiche e care dei vecchi che non ci sono più, i sorrisi degli amici di un tempo ormai lontano, le gioie semplici di una giornata di sole, di un cielo all’imbrunire, la stretta di mano di un incontro casuale al mercato; il meravigliarsi per il miracolo dell’esistenza, per la forza dell’amore che non si spegne mai e si rinnova sempre: tutte quelle piccole-grandi cose in cui è contenuto il segreto ultimo della ragione del mondo e che il poeta-raspollatore raccoglie per noi, per farcene memoria affinché, come diceva San Tommaso, possiamo conservare la nostra umanità e attraverso essa la nostra specie.

Anche a te/ rovina/ è lo scorrere del tempo, il tempo come divenire, come movimento da un prima a un dopo, è il tema del terzo libro di Palmeri, “Remando contro vento”. Come scrivevamo in occasione della sua pubblicazione, “il riferimento del titolo è al ventos dell’ultimo esametro del quarto libro dell’Eneide”. Didone abbandonata da Enea si toglie la vita, vedendo la nave dell’amato uscire dal porto. Virgilio in un solo verso esprime l’ultimo respiro di Didone: In ventos vita recessit, nel vento la vita fuggì. E’ lo stesso vento contro cui rema il poeta, contro cui remano gli uomini tutti, il vento che ci trascina via dalla vita verso l’ignoto. Tutto quello che gli uomini fanno nel corso della loro esistenza, non sono che remate contro questo vento fatale: lo sono i figli nella cui vita vediamo continuare la nostra, lo è l’amore che abbiamo dato e che diventa ricordo in chi ci ha conosciuto, lo sono le opere nostre più degne. Nella vecchiaia, però, dove il vento si fa più forte e il remare più intenso, Palmeri ci dice che è la poesia stessa – come stupore per la vita, come preghiera di vita, come lotta per la vita – la vogata più efficace contro il pensiero della morte. Ogni volta, infatti, che la vita appare meno morente, nasce una poesia, frutto e inno alla vita, ho tanti amori/ nonostante la tanta età, ennesimo, caparbio colpo di remo contro il vento fatale.

Mi fermerò/ quando incontrerò Dio, e siamo a quest’ultima raccolta, “Il tempo del tempo che verrà”, il tempo nella sua terza accezione, tempo come “struttura”, come contenitore. Se, infatti, nelle prime tre raccolte la riflessione sul tempo come età e come movimento partivano da un primato del presente: da esso e per esso il poeta rievoca e interroga il passato, ora è invece il futuro, il tempo primo che domina i pensieri del poeta. Dove prima, quindi, i grandi temi erano quelli della memoria del passato e della lotta per trattenere il presente che fugge, ora il tema – a cui, tra l’altro, è dedicato il libro – è quello della speranza, ovvero la trascendenza del presente verso il futuro. …quando penserai/ di aver fatto il pieno/ non fermarti/ ché contenitore senza fondo/ è il tempo di tua vita./ Da traino ti sia la speranza/ la sola ad aprirti occhi e cuore/ oltre ogni limite… La speranza per Palmeri non è mai attesa passiva ma progettazione fiduciosa di un futuro positivo. Non ti temo/ aborrita fine,/ né t’aspetto:/ piena troverai/ la dispensa. Sono tante le poesie in cui compare un pensiero di speranza sia terrena che ultraterrena. Una breve parentesi è però costituita dalla poesia “Ora per allora”, dove il poeta non accenna alla speranza quanto alla costatazione tragica che la vita con la vita si paga. Ne facciamo cenno tuttavia per il risultato artistico di questo componimento, in cui Palmeri pare metta in versi il “Cristo morto” del Mantegna, dove il Cristo è lui, dove il Cristo è ciascuno di noi. Ma, dicevamo, la speranza ritorna potente e assoluta – sconfitta a volte/ mai vinta – in questo libro, il cui assunto può essere questo: avrà futuro, qui come nell’Aldilà, perché mondo e vita/ in altro mondo/ saranno ancora, solo chi avrà avuto la forza positiva di considerare il presente come il tempo della possibilità per l’avvenire. Non saranno, quindi, i peccati a dire chi entrerà o no a godere della Luce senza fine, né saranno le opere di bene, ma la speranza che ciascuno di noi ha avuto e ha donato in vita; la speranza, quel sentimento primordiale che solo ci infutura, quel poter essere là, un giorno che dà vita al nostro essere qui e ora.

In ubbidienza al destino/…/in disubbidienza/ alla misura del tempo. Ovvero lui, io e la nostra amicizia. Nel 2004, se non ricordo male era all’inizio dell’estate, Palmeri mi ha portato le sue poesie perché le leggessi. Non ci conoscevamo se non per interposta persona: lui sapeva che io mi interessavo di libri e io sapevo che lui era avvocato. Io non avevo ancora 40 anni, lui andava per gli 80: quando io nascevo, lui aveva la mia età. Tra noi, tuttavia, è nata subito un’amicizia e, cosa per certi versi originale, la nostra frequentazione ha avuto sempre lo stesso rituale: mai un caffè al bar, mai una passeggiata in centro, mai nulla che non riguardasse la poesia. Ignazio mi telefonava per chiedermi se potevamo condividere 10 minuti assieme. Gli dicevo di sì e lui, puntuale, arrivava, e, rigorosissimo nel non superare i 10 minuti chiesti, mi leggeva i suoi ultimi versi con la voce “squillante di giovane”, come l’ha definita Bepi De Marzi. Tutte le poesie di Ignazio, dalla prima all’ultima, io le ho fatte mie almeno due volte, dalla sua voce, poi dalla mia lettura. Dieci anni sono passati così, durante i quali lui ha scritto 4 libri, più di 400 poesie, alcune davvero intense, profonde, geniali, altre di meno valore, più occasionali, tuttavia sempre espressione di un sentire autentico, vissuto. A un certo punto è accaduto qualcosa. Lui deve aver telefonato, qualcuno deve avergli detto che io lo avrei richiamato; involontariamente devo aver lasciato passare troppo tempo. Senza quasi accorgermene il rituale si era rotto. Sono accadute tante cose in questi dieci anni! Poi, tra una cosa e l’altra che ti cambia la vita, ho avvertito il peso del suo silenzio prolungato, anomalo e allora l’ho cercato, l’ho chiamato, temendo anche che gli fosse accaduto qualche accidente, e, comprendendo la sua offesa per la mia ritardata chiamata, gli trasmettevo la mia, di offesa, per la sua incomprensione dei miei impicci. È trascorso ancora del tempo, poi si è ripresentato con una nuova poesia: La fine di un’amicizia, che mi ha letto con la voce squillante di sempre, ripristinando così il solito rituale e con esso il nuovo inizio della nostra amicizia. Quel gioco d’opposizione tra “ubbidienza” e “disubbidienza” con cui inizia la poesia mi è piaciuto e credo vi sia la chiave della nostra amicizia e il valore della sua ricerca letteraria. Ubbidienza e disubbidienza. Ignazio ha il doppio della mia età, ma questo non impedisce la nostra intesa; Ignazio ha il doppio della mia esperienza, ma non se ne cura affatto quando assieme cerchiamo di capire la sua poesia. Ubbidire al dovere di cercare il proprio miglioramento, disubbidendo all’opinione comune che a novant’anni i giochi sono per lo più fatti, è il grande insegnamento della nostra frequentazione, l’eredità che, come amico, gli chiedo di lasciarmi.

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