Pagare i campioni

Pubblicato su Sciare, dicembre 2013

Venticinque anni fa, a Calgary, Alberto Tomba vinceva sia il gigante sia lo slalom olimpico; sempre venticinque anni fa, a Seul, Gelindo Bordin vinceva l’oro nella maratona olimpica. Ho incontrato Gelindo Bordin in occasione di una serata per ricordare quella vittoria. Con lui si è parlato di maratona ma anche di sport, compreso lo sci. Gli anni di Bordin, cioè gli anni di Tomba, sono stati il periodo più bello per lo sport italiano. Un decennio, quello degli anni Ottanta, letteralmente favoloso, con gli Azzurri che vincevano tutto: 1980, Mennea conquista l’oro sui 200 metri alle Olimpiadi di Mosca e Sara Simeoni fa altrettanto nel salto in alto; 1982, gli Azzurri del calcio conquistano il Mondiale di Spagna; 1984, Gabriella Dorio è medaglia d’oro a Los Angeles nei 1500; 1984, Moser fissa il record dell’ora in bici; 1984 e 1985 Orlando Pizzolato si aggiudica la Maratona di New York; 1986, Gianni Poli fa altrettanto; 1988, Alberto Tomba inizia la sua strepitosa serie di vittorie. Lo sport italiano non è mai stato così vincente. Gli Azzurri erano tra i più forti atleti del mondo. Non c’era disciplina sportiva in cui non facevamo la nostra bella figura. Bordin mi ha detto che oggi l’atletica sta soffrendo come non mai. Mancano le vittorie. Nello sci, dopo Tomba, le vittorie non sono mancate. Lo sci, per fortuna, sta meglio dell’atletica. Però il ragionamento che fa Bordin sull’atletica è calzante anche per lo sci e il suo futuro. Non si vince più, dice Bordin, perché sono sempre meno i giovani che si dedicano seriamente allo sport. E senza un grande bacino di praticanti, i campioni non possono nascere. Bordin sostiene che per far ritornare i giovani nei campi d’atletica (e così nelle piste di sci) bisogna parlare oltre che di sogni e di valori (sempre sacrosanti) anche di soldi. Non è possibile dare a chi vince un oro olimpico 140 mila euro lordi, ovvero tra tasse e altri balzelli qualcosa come 60.000 euro netti. Chi vince un oro, è stato – nella sua disciplina, nel determinato momento della gara olimpica – il migliore del mondo. Cioè la massima espressione di tutta l’umanità. Una cosa enorme. Una cosa davvero grandiosa se si pensa che lo sport è l’unica attività di questa terra in cui gli uomini si misurano in un confronto realmente oggettivo. Un premio Nobel, per esempio, è espressione di un giudizio di persone, quindi in qualche modo opinabile. Nello sport, invece, conta il tempo, i goal, i punti. È il cronometro a dire chi può partecipare a un’Olimpiade; è il confronto alla pari a dire poi chi si aggiudica la medaglia d’oro. Un premio Nobel si porta a casa poco più di 1 milione di euro. Giusto! Una medaglia d’oro, 140 mila euro. Ingiusto! Bordin sostiene che bisogna dare almeno 5 milioni di euro a chi vince un’Olimpiade. Ha ragione. Chi vuole vincere un’Olimpiade deve dedicarsi al suo sport per almeno 10, 15 anni. Nello sci sono milioni e milioni di paletti; migliaia di ore di freddo. Un’intera giovinezza di sacrifici e rinunce. Se poi si arriva a vincere, ma questo non è detto, una medaglia d’oro, il guadagno è di circa 60.000 euro netti. Meno di quanto si sarebbe guadagnato andando a lavorare in fabbrica a 1000 euro il mese, dato che in 10 anni i soldi sarebbero stati 120 mila, più tfr, più ferie pagate, più Inps versato. Soldi sicuri mentre la medaglia d’oro è solo un’ipotesi e soprattutto è l’ipotesi più alta. Un giovane con il talento dello sci e un po’ di cervello fa quattro conti: meglio sciare la domenica e vincere le gare di provincia e vivere bene che tentare di entrare nella storia dello sport e poi trovarsi alla soglia dei trent’anni a doversi riorganizzare la vita da zero. Bordin dice: chi rischia così tanto, se poi ce la fa a vincere, cioè a essere il più forte tra i più forti del mondo, deve poter avere l’opportunità di cambiare radicalmente la sua condizione economica, deve cioè godersi il suo successo come un vero vittorioso che nella vita ha già dato il massimo di sé e che adesso può vivere senza dover più lavorare. E io aggiungo: c’è anche una questione morale. È più giusto dare 5 milioni di euro a un atleta che vince una medaglia d’oro dopo una vita di sport ai massimi livelli, che darli, come avviene oggi, a un fortunatissimo acquirente di un biglietto dell’ennesima lotteria di capodanno che se li porta a casa senza alcun merito. Se tutti gli sport avessero il loro legittimo riconoscimento economico, molti di più sarebbero i talenti che si metterebbero in gioco e tante di più sarebbero le vittorie azzurre, e noi saremmo più un popolo di sportivi che di scommettitori.

I maestri di sci del Veneto sono stati invitati a Venezia per accogliere la fiaccola delle Universiadi del Trentino. Gli organizzatori volevano che l’arrivo della fiaccola nella cornice unica di piazza San Marco avvenisse all’interno di un’altra, non meno suggestiva, cornice: l’arco di sci formato dai maestri di sci Veneti. Hanno avuto ragione. C’ero anch’io e vi assicuro che la scena, con il sole che calava sulla laguna e con Venezia che è sempre Venezia e con noi a sci alzati, è stata una scena straordinariamente spettacolare. I turisti giapponesi erano letteralmente impazziti, i veneziani che non si scompongono mai per nulla, ritenendo di aver già visto tutto e il contrario di tutto nella loro storia millenaria, sono stati anche loro esterrefatti da quell’invasione di sci in laguna. Poi, sotto l’arco di sci dei maestri Veneti, è passata la fiaccola portata da tre speciali tedofori: Gustavo Thoeni, Piero Gros e Paolo De Chiesa. I tre fenomeni della fenomenale Valanga Azzurra. Ebbene, la mia riflessione è questa: sono rimasto colpito, tanto che ne ho subito parlato al ritorno in traghetto con il mio presidente di Collegio e amico, Roberto Pierobon, di come i tre della Valanga Azzurra sapessero, a più di trentacinque anni dai loro successi, suscitare ancora emozione nei solitamente poco emotivi maestri di sci. Perché a turno ci siamo tutti fatti fotografare con De Chiesa, Thoeni e Gros, come oggi fanno i teenager con i divi dello spettacolo. Noi allora come i ragazzini che impazziscono per farsi lo scatto vicino al divo del Grande Fratello? Che cosa induce seriosi maestri di sci di una certa età a farsi immortalare con il campione di tanti anni fa? Forse l’idolatria per il mito è un eterno dell’uomo? L’attrazione irresistibile per chi ha avuto successo è un sentire universale? Allora i vari filosofi platonici o aristotelici non sono altro che dei fan ante litteram di Platone e Aristotele? I 12 apostoli il primo fan club? Poiché davvero faccio fatica a capire quei giovani che sgomitano per farsi fare l’autografo da un divetto ospite di Maria De Filippi, volevo almeno capire perché stimati maestri di sci hanno avuto piacere di farsi fotografare con gli ex della Valanga Azzurra. Volevo capire la differenza, se c’era una differenza. Indubbiamente l’ammirazione per chi ce l’ha fatta, è un sentimento che va riconosciuto; ed è un sentimento positivo. È giusto provare stima per chi ha fatto tanto e, nel nostro piccolo, tentare di emularlo. Ma il punto è proprio qui, nel verbo “ha fatto”. La differenza, tra i maestri che si sono fatti fotografare con Thoeni e fratelli di Valanga, e i giovani che impazziscono per gli attori del Grande Fratello, è che i primi ammirano un personaggio per le cose che ha fatto, per le gare importanti che ha vinto, per l’emozione che attraverso le sue vittorie ha donato; gli altri ammirano il personaggio per il solo motivo del suo essere stato una presenza televisiva. Ecco la differenza. I maestri vicino a Gros, a De Chiesa, a Thoeni avevano ben presente le loro vittorie, anzi prima venivano le loro discese e poi i loro volti sotto la maschera e il berretto, mentre i giovani fan dei personaggi televisivi non sanno nulla della ragione per cui i loro divi sono in tv, dato che non c’è nessun’arte che li abbia portati lì. Se i maestri riconoscevano in quei vecchi campioni il talento del loro saper fare e parlavano del centesimo che Thoeni, specialista dello slalom, aveva preso dall’imbattibile Klammer nella discesa più difficile della Coppa del Mondo, la Streif, il 18 gennaio del 1975; oggi i giovani riconoscono dei loro idoli solo l’apparire senza ragione, senza arte, senza talento.

Capito questo, il presidente Pierobon e io ci siamo rasserenati ad ammirare la laguna al tramonto.

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