Ciò che è giusto può essere ingiusto

Pubblicato su Sciare, novembre 2013

E’ giusto che i bambini sciino con il casco sulla testa; che gli atleti di qualsiasi età facciano altrettanto negli allenamenti e nelle gare. E’ giusto che le seggiovie abbiano la sbarra di sicurezza, che i piloni siano avvolti dai materassi, che le piste siano da cima a fondo protette da reti antisfondamento. E’ giusto che gli incroci, i dossi siano segnalati e la velocità sia controllata dagli agenti in pista come già avviene sulla strada. E’ giusto che un atleta, se scia in gara sotto alle proprie possibilità, vada dallo psicologo sportivo a rimuovere il suo blocco; e che, se non è in forma fisica, vada dal dietologo. E’ giusto che chi in pista cade, si rivolga subito all’avvocato per procedere contro chi l’ha fatto cadere: le condizioni della pista o un altro sciatore che sia; è giusto che un allenatore considerato troppo severo sia minacciato di essere querelato con l’accusa di mobbing. Tutto ciò è giusto e anche normale: il mondo della neve non inventa nulla, si adegua al mondo di tutti i giorni, dove senza strisce pedonali, nessuno osa più attraversare una strada; senza semafori o rotonde, nessuno si sogna di fidarsi di ciò che vede a destra e a sinistra per attraversare un incrocio, figurarsi i binari! Dove nessuno senza cinture di sicurezza allacciate fa più un chilometro in auto e senza il casco sulla testa accende più la moto; dove chi guida dopo aver bevuto due bicchieri di vino, è considerato un serial killer in potenza; dove un bambino a cui non piace tanto studiare (è un bambino!) viene considerato quanto meno dislessico, ovvero uno che vede le lettere “girare”, e quindi un bambino che va seguito con un metodo di apprendimento personalizzato; dove chiunque ha subito un trauma infantile o almeno adolescenziale tanto sconvolgente da rimuovere con l’analisi; dove chiunque si sente vittima di un torto grave da sottoporre al giudizio della magistratura; dove nelle fabbriche la legge 626 obbliga che si avverta con chiarezza che una scala è composta da gradini da cui si può cadere, che le porte si chiudono senza nessun dispositivo di arresto che tuteli le dita di chi le usa. E’ tutto giusto, ci mancherebbe altro! È tutto assolutamente corretto, indice di civiltà e progresso, ma che nostalgia di quando sciavamo senza casco; di quando andavamo fuori pista senza dover scavalcare nessuna rete e infrangere nessuna norma di sicurezza; di quando sulla seggiovia non c’erano nemmeno le sbarre e ci si buttava sulla neve fresca ma anche no per dimostrare che stavamo per diventare grandi; di quando l’allenatore ci aveva fatto quasi piangere per averci detto davanti a tutti che eravamo mezzi uomini (è un eufemismo!) perché in quel punto della pista avevamo avuto paura e ci eravamo messi di traverso e noi avevamo giurato a noi stessi che la prossima volta, a costo di qualsiasi rischio, non avremmo più frenato. Che nostalgia per le baruffe in pista a chi gridava di più, a chi aveva l’ultima parola. Che nostalgia per quel mondo meno sorvegliato, meno protetto, meno strutturato da tanti serissimi professionisti che ci aiutano a tirarci fuori da ogni impiccio; che nostalgia per quel mondo meno in sicurezza e più vero, più capace di farci crescere contando sulle nostre forze, sul nostro coraggio, sulla nostra grinta. Credo che la decadenza della nostra società stia anche nel suo eccesso di ricerca di garanzie e di protezione che, nell’illusione di darci l’incolumità eterna, ci rende sempre più deboli e incerti nella grande sfida dell’esistenza che, quando si fa vera, non prevede alcun genere di materasso.

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