Quello stile chiamato “sportivo”

Pubblicato su Sportivissimo, giugno 2013

Non sono uno juventino, ma mi ha fatto piacere che lo scudetto dell’anno della Grande Crisi sia andato alla Juventus. Il calcio è espressione di potere economico. Chi ha soldi vince, chi non ne ha, perde o al massimo partecipa. Il calcio segue le dinamiche del denaro, a volte ne sa perfino anticipare i flussi. Trent’anni fa, l’industria meccanica era l’industria dominante in Italia e, trent’anni fa, era la Juve, espressione del grande potere economico della Fiat, la più grande industria meccanica italiana, a inanellare campionati su campionati. Poi fu la volta del boom dell’industria della comunicazione, specialmente televisiva, e toccò al Milan firmato Mediaset a essere la squadra da battere. Il calcio trionfa dove ci sono soldi pesanti. Non erano così, evidentemente, quelli dell’epoca delle New Economy. Il Cagliari firmato Tiscali non ce la fece a entrare nella storia come il Cagliari romantico di Gigi Riva. Oggi in Europa, Barcellona e Real Madrid hanno smesso di vincere con la crisi dell’economia spagnola mentre Bayer e Borussia hanno cominciato a vincere grazie alla solidità di quella tedesca. Che lo scudetto del 2013, quindi, sia andato alla Juve, per me significa una cosa soltanto: la grande industria manifatturiera italiana non è affatto morta ma essa rappresenta ancora il principale punto di forza della nostra economia nazionale. Calcio docet. Se vogliamo uscire dalla crisi, quindi, bisogna ripartire da lì, dall’industria manifatturiera, dove ancora siamo riconosciuti come la seconda potenza industriale europea.
Sono convinto che la Juventus sia stata voluta e ben finanziata dagli Agnelli in fondo per ragioni industriali. All’inizio doveva chiamarsi Forza e Salute oppure Vigor e Robur e, anche attraverso il nome, doveva fare da esempio di virtù alle masse di lavoratori della Fiat. Come i primi giocavano e vincevano, così chi lavorava alla catena di montaggio doveva lavorare e creare profitto. Poi è stato scelto il nome Juventus per esprimere una giovinezza senza tramonto della squadra, della fabbrica e s’inventò quello che è passato alla storia come “lo stile Juventus”. Così Furino, capitano della Juve degli anni ’80, racconta a Gianni Mura l’essenza dello “stile Juve”: “è una forma di educazione… significa non parlar male dei compagni, discutere tutto all’interno, significa andare in trasferta in ordine, con la divisa sociale, pettinati, con la cravatta”. E Bettega, altro campione bianconero di quel tempo: “lo stile Juve è essere eleganti nel corpo e nello spirito, onesti, puliti e corretti… coltivar l’amicizia, essere fedeli a degli ideali, dare un senso alla propria vita”. Qualcuno scrisse che questo fu il modo attraverso il quale gli Agnelli tennero a bada gli impulsi rivoluzionari delle masse operaie nei caldi anni Sessanta e Settanta. Già nel 1948 Alcide De Gasperi era riuscito a evitare la guerra civile dopo l’attentato a Togliatti spronando Gino Bartali alla vittoria del Tour de France. Può essere, ma lo “stile Juventus” fu essenzialmente il tentativo di realizzare un più importante “stile Fiat”. La Juve era formata da calciatori meridionali che avevano la stessa cultura e le stesse origini delle migliaia di operari che lavoravano in fabbrica. Era scontato che i secondi s’indentificassero nei loro conterranei dai piedi buoni che vincevano i campionati e, quindi, ne volessero imitare lo stile. Operai come calciatori: educati, signorili, leali, capaci di produrre buone macchine come i secondi facevano buoni goal. La Juve vinceva, la Fiat vinceva.
Da non tifoso della Juventus dico che lo “stile Juve” è propriamente una derivazione dello “stile dello sport”, quello che gli inglesi chiamano da sempre fair play e che è comune a tutti i veri sportivi. Educazione e rispetto, leoni nel campo da gioco, signori con la divisa del club. Nello sci Hannes Schneider sciò tutta la vita con la cravatta. Schneider fu il più forte sciatore degli anni Venti e fu l’inventore della progressione tecnica per imparare a sciare. Fu il primo maestro dei maestri di sci e fu il primo a conferire il titolo anche alle donne. La sua cravatta non era un semplice belletto da dandy delle nevi, ma un insegnamento affinché l’eleganza del gesto tecnico nel compiere la curva con gli sci non fosse solo un atto muscolare limitato alla pista ma uno stile di comportamento e di vita da perseguire ogni giorno. E la cravatta di Schneider viene prima del cosiddetto “stile Juve”.

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