Il sublime delle cime

Pubblicato su Sportivissimo, giugno 2013

Boccaccio racconta che Dante Alighieri era di statura piccola e di fisico minuto. Da giovane, i fiorentini lo prendevano in giro chiamandolo “i”, la lettera più piccola dell’alfabeto, e lui, che aveva un bel caratterino, rispondeva “e tu sei quel che gli vien dopo, raddoppiata”. Intendeva la “K” che, se detta due volte, fa “cacca”. Piccolo (da studi compiuti sulle sue ossa pare fosse alto 167 cm.) e magro, Dante, fu il poeta che camminò più di tutti, in fuga per quasi vent’anni, braccato dai guelfi neri che lo avevano condannato a morte prima, igne comburatur sic quod moriatur, bruciato con il fuoco in modo che muoia, come sta scritto nella sentenza del 10 marzo 1302 firmata dal podestà Cante dei Gabrieli e poi, sentenza del 6 novembre 1315, alla decapitazione, che si estendeva anche ai figli, non più protetti dall’età minore. Dante, ce lo immaginiamo agile in fuga da Firenze verso le terre Venete (attenzione: se Firenze gli diede i natali, è il Veneto, esattamente la provincia veneta, la terra dell’ispirazione poetica, dato che qui compose gran parte della sua opera) agile, insomma, non meno del Dante personaggio della Commedia, tra bolge e cerchi e sfere celesti nella sua ascesa al cielo più alto. Di tutt’altra mole era il Petrarca. (Altro nato toscano e divenuto nostro conterraneo). Petrarca tendeva al grassoccio. A fare l’ambasciatore e mangiare alla corte pontificia di Avignone ci s’ingrassava facilmente. Petrarca praticava il giardinaggio per tenersi un po’ in forma e di tanto in tanto compiva passeggiate, la più lunga e la più famosa delle quali, fu la salita sul monte Ventoso che fece con il fratello Gherardo. Un’autentica impresa per il pingue Petrarca. Il Ventoso è il monte più alto della Provenza, 1912 metri ed è chiamato così per il forte vento che lo sferza. Nel 1934 e 1968 il vento raggiunse la velocità record di 252 km l’ora. Sulla sua cima non c’è nulla: il vento non permette che vi crescano nemmeno gli alberi, e i locali, per questa ragione, lo chiamano anche Monte Calvo. Petrarca raggiunse la cima il 25 aprile del 1336 ma nel suo racconto non fa accenno a particolari situazioni atmosferiche. Faceva un caldo infernale, invece, il 13 luglio del 1967, il giorno della tappa del Tour de France in cui a soli 3 chilometri dal traguardo morì il ciclista inglese Simpson. I giornali del tempo parlarono di 40 gradi all’ombra, anche se ombra non ce n’è negli ultimi chilometri della salita. Simpson si era staccato dal gruppetto di testa. Aveva provato ad alzarsi sui pedali ma le gambe non gli avevano retto. Simpson cadde. Scrive Mura: “più che altro si coricò su un fianco. Poi poche pedalate da sonnambulo e l’ultimo crollo”. Uno spettatore si precipitò a soccorrerlo. Arrivò subito anche il medico della corsa, gli fece un’iniezione, il massaggio cardiaco, ma Simpson non si riprese più. L’autopsia ufficiale disse che la causa della morte fu collasso da insolazione, scatenato anche dall’assunzione di anfetamine, di cui si erano trovate tracce nel suo sangue. Caldo infernale e droga gli fecero saltare il cuore. Anni dopo, però, girò un’altra versione. Pare che uno spettatore, tanto per fare uno scherzo, avesse passato a Simpson una borraccia ghiacciata con dentro cognac. L’ultimo rifornimento d’acqua era a Carpentras, un bel po’ più sotto. Simpson ne diede subito una bella sorsata. Quando si accorse che era cognac e non acqua, fu troppo tardi. L’alcol gli era già finito nello stomaco e con il cuore a mille, subito alla mente. Perse l’equilibrio, barcollò, si pose su un lato ad appena 3 chilometri dall’arrivo.
Petrarca non era uno sportivo, la salita sul Ventoso fu un’esperienza occasionale, nata dal desiderio di raggiungere la cima che tante volte aveva ammirato dal fondo della valle. Simpson era il più forte ciclista inglese dei suoi tempi, tentò di salire sul Ventoso per vincere la tappa. Scrive Petrarca, ricordando la lezione dantesca: “la vita che noi chiamiamo beata è posta in alto”. Poeti e sportivi vanno in su come l’acqua va in giù. È una questione di natura. Sulle vette non c’è mai nulla ma in quel nulla gli uomini trovano se stessi. Petrarca scrive “l’anima”. Un alpinista ha scritto: “l’incontro dell’io con il proprio spirito”. Dalle cime dove la visuale si fa a 360 gradi e la vista si perde all’infinito, l’uomo vede dentro di sé, scopre il proprio mondo interiore. Una prodigiosa contraddizione che ha sempre fatto delle cime il luogo del sublime, il luogo più umano di ogni altro.

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