Il difetto antropologico

Pubblicato su “Wake Up, Italia”, aprile 2013

Molti, ma vorrei che s’intendesse “tutti”, dei vizi italici, che ci hanno ridotto a quello che siamo, dipendono dal fatto che gli italiani non sono mai diventati un popolo di sportivi. Certo, abbiamo giocato allo sport, abbiamo anche di tanto in tanto vinto, abbiamo inventato la chiacchiera e l’idolatria sportiva, ci siamo comperati le auto, gli orologi, gli abiti e le scarpe sportive, ma nel profondo non siamo mai diventati un popolo di vera cultura sportiva, perché non abbiamo mai voluto capire che cosa sia davvero lo sport.
Se siamo quello che siamo: una nazione in bancarotta, dominata dall’illegalità e dai privilegi, con le Istituzioni screditate e sbeffeggiate a causa di una classe politica corrotta e quasi mai all’altezza del suo ufficio; con una legge elettorale incostituzionale, con una giustizia lenta in balia di un ordinamento normativo elefantiaco; con le aziende pubbliche, Rai in primis, lottizzate e con quelle private che praticano come prassi l’evasione fiscale; con la scuola svilita a ruolo comprimario della società e un’università autistica, avulsa dal mondo delle imprese, dell’economia, dell’arte; con le banche che addebitano tassi da usura e investono senza scrupoli in ardite speculazioni finanziarie i soldi dei correntisti che, in virtù di una diavoleria contrattuale, considerano loro; con le professioni che hanno perso il loro senso del dovere, perfino nella sanità dove la missione di servizio si è spenta lasciando il posto al carrierismo e alla ricerca del business; con un sistema pensionistico ingiusto tra assegni d’oro e assegni da fame, e in ogni caso sull’orlo del dissesto; con lo Stato che non paga i servizi ricevuti dalle imprese private facendole di fatto fallire e comunque dando il pessimo esempio di morosità istituzionale tanto che oggi chiunque si sente giustificato a non onorare i debiti, agevolato anche da una giustizia in materia assolutamente inefficace… se siamo quello che siamo – e non vogliamo servirci di questi arcinoti argomenti per le solite, vergognosissime, finalità politico-elettorali – dobbiamo riconoscere che tutto questo non può esser dipeso dalla responsabilità di un singolo uomo o di un singolo governo o di una certa classe dirigente. I vizi sono così tanti e così macroscopici e così radicati che il difetto non può che essere antropologico della gens italica. L’errore è culturale. Siamo deficienti di qualcosa. Ci è mancato quel quid che ci avrebbe fatti essere diversi da quelli che siamo: leali, tenaci, collaborativi, accesi dal sacro fuoco del nostro miglioramento. Ci è mancato di capire che cosa sia stato davvero lo sport nella storia della nostra civiltà: una vera e propria filosofia dell’uomo, in specie una o forse la sola vera filosofia vichiana che unisce sapere e fare, creazione e azione, in cui la conoscenza non è puramente mentale ma anche attraverso i muscoli, la carne, l’esperienza dei sensi; una filosofia dell’uomo capace di offrire una visione del mondo positiva, etica e sana.
All’inizio della nostra modernità, Leopardi, nel suo famoso Discorso sui costumi nazionali, ci aveva avvisato: attenzione, siamo un popolo di cinici e ipocriti, di rammolliti e incapaci al confronto leale, assolutamente privi di una solida cultura del miglioramento. E nello Zibaldone (115) ci faceva notare: “gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o ad eccitar l’amor della gloria ecc., ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigore dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole”. Voleva indicarci la matrice classica per porre le basi alla nostra modernità. Nessun dualismo tra corpo e mente. L’uno non è mera struttura dell’altra. Quando si fa sport, la testa non rimane a casa, così come quando si pensa, il corpo non dorme. Invece abbiamo scelto la matrice opposta, romantica e controriformistica. E lo sport, la filosofia dello sport, ha pagato carissimo dazio. Per duecento anni e ancora oggi è stato escluso da ogni dignità culturale, colpevole di essere becera pratica, sudore, mero affare del corpo: vincolo, da un lato, alla nostra spiritualità; dall’altro, alla nostra intellettualità. Corpo come peccato; corpo come vanità. Fuori dalla chiesa e dalla scuola.
Una ghettizzazione inoltre che nel Novecento ha trovato nuova spinta prima nel rifiuto, peraltro sacrosanto, dell’atletismo marziale dell’italietta fascista praticato nel Ventennio e da ultimo, ma questo per generiche ragioni politiche meno condivisibili, come antiamericanismo.
Così abbiamo perso la filosofia più vincente del presente, unico pensiero davvero globale dato che le varie discipline sportive si praticano nello stesso modo, rispettando le stesse regole, a sud come a nord, a est come a ovest del Pianeta come nessun altro pensiero umano riesce, sia esso religioso, artistico, politico, sociale, economico; unico pensiero davvero completo, dato che ha saputo far conciliare il valore della libertà, proprio del liberalismo, con il valore dell’uguaglianza, proprio del socialismo, annullando un conflitto dottrinario che è stato la causa di tutte le barbarie del secolo scorso.
Nel campo di gara siamo tutti uguali, ma poi ciascuno di noi è chiamato a esprimere liberamente i propri talenti. Uguaglianza e libertà. Merito e rispetto. Per queste e infinite altre ragioni, lo sport avrebbe dovuto avere più spazio nella formazione dei giovani, avrebbe dovuto essere più integrato nel sistema scolastico, avrebbe dovuto avere un riconoscimento maggiore da parte del mondo della cultura, dell’arte, dell’impresa, della politica.
I padri fondatori della nostra modernità fino a Croce, chiamato, sì, “grande atleta della cultura” (Contini) ma dove “atleta” non è metafora sportiva ma lessema dell’agiografia medioevale, athleta Dei, con il significato di “combattente” come Dante definisce “santo atleta” Domenico, scegliendo l’idealismo romantico, misero al bando lo sport dalla formazione dei nostri giovani.
I padri fondatori dell’America, invece, che avevano una cultura più classica e meno romantica, hanno da subito inserito la pratica sportiva nei programmi scolastici. Nelle High School e più ancora nei College lo sport è praticato a livello agonistico. “Agonistico” viene da “agone”, il luogo in cui nell’antichità avvenivano i pubblici incontri e i pubblici confronti. Ogni confronto stabilisce un vincitore. Da allora, per emergere nell’agone, gli uomini hanno sviluppato il cosiddetto “spirito agonistico”, quel motore interiore che li spinge a cercar con determinazione il proprio miglioramento.
Per insegnare l’arte di diventare più bravi, gli americani hanno voluto inserire lo sport agonistico nel loro sistema universitario come scuola del miglioramento. Chi studia facendo dell’agonismo impara due cose: a comprendere e a migliorarsi. Quando sarà dottore, sarà un dottore agonale con dentro di sé la voglia di diventare il più bravo di tutti nella sua professione. Una nazione che ha professionisti in continua ricerca del proprio miglioramento è una nazione che vince su quelle che hanno professionisti seduti sulla gloria del loro pezzo di carta.
Nel romanzo più famoso di Scott Fitzgerald, “Il grande Gatsby”, nelle pagine finali, quando Gatsby è morto e di lui si sta celebrando il funerale, il padre di Gatsby mostra al narratore un libro sulla cui ultima pagina il giovane Gatsby aveva scritto la “sua formula” per diventare “grande”. La “formula” è suddivisa in due schede. La prima porta il titolo ORARIO: “Sveglia 6.00”; “esercizi coi manubri e al muro 6.15 – 6.30”; “studio dell’elettricità ecc. 7.15 – 8.15” (evidentemente nei primi anni del Novecento, l’elettricità era il tema del futuro). “Lavoro 8.30 -16.30” (Gatsby era meno fortunato dei giovani di oggi e doveva guadagnarsi da vivere). “Baseball e sport vari 16.30 – 17.00”. “Esercizi d’eloquenza e di contegno e come migliorare 17.00 – 18.00; studio d’invenzioni utili 18.00 – 19.00”.
Segue una seconda scheda, intitolata DECISIONI GENERALI. Al primo punto dice: “non sprecare tempo con Shafter e un nome illeggibile” (roba come Facebook e le centinaia di falsi amici che vi sono); “smettere di fumare e di masticare gomma”; “fare il bagno un giorno sì e uno no”; “leggere un libro o una rivista istruttiva alla settimana”; “risparmiare 5 dollari (cancellato) 3 dollari alla settimana”; “essere più buono coi genitori”. Se si rilegge, è un’alternanza continua di sport e studio e buoni propositi. Sono gli stessi valori dei grandi atenei americani di cui dicevamo prima. Sono gli stessi valori del mondo classico che abbiamo dimenticato pur essendone in parte stati la culla.
E allora dovremmo essere felici che Mario Monti abbia candidato nella sua lista Valentina Vezzali, campionessa olimpica di fioretto; che Berlusconi abbia voluto rispondergli ricandidando Manuela Di Centa, gloria del fondo italiano, che “ha vinto anche di più” della Vezzali; che Bersani abbia scelto Josefa Idem, regina del canottaggio? No, non dovremmo esserlo. Che competenze ha un atleta? Che contributo può dare in un momento così complesso come quello che stiamo vivendo, con l’Italia che non cresce, con le imprese che chiudono una ogni minuto, con gli imprenditori che s’impiccano, con gli operai disperati in cassa integrazione?
Aver messo in lista i campioni dello sport è la solita operazione d’immagine di una politica incredibilmente ancora irresponsabile; un cercar voti tra i fan club. Alla politica oggi servono persone che s’intendano di economia, d’impresa, di organizzazione. Siamo allora in contraddizione con tutto il nostro elogiare lo sport? Con il considerarlo la filosofia vincente dei nostri tempi? No. Il ragionamento è un altro. Lo spiego con un esempio. Qui non si propone di mettere a capo dell’ufficio progettazione di una casa automobilistica un campione di automobilismo. Si rileva soltanto che la sensibilità dominante degli ingegneri che progettano oggi le autovetture è di tipo sportivo. Ciò significa che chi fa oggi autovetture ha una visione sportiva di ciò che fa. Mai pensato che un atleta, che è stato anche un campione, possa essere per questa ragione anche un buon politico.
Credo, però, che un politico o un leader d’azienda o un qualsiasi connazionale che abbia una visione sportiva della vita, che creda nello spirito di sacrificio, nel merito, nella sfida leale, nel gioco di squadra, nella devozione alla maglia, che sappia circondarsi di persone davvero capaci, che sia acceso dal sacro fuoco della ricerca del proprio miglioramento, che abbia una mentalità positiva e vincente, possa essere il politico o il leader d’impresa o semplicemente il connazionale che ci aiuti a essere un Paese di gente più sveglia e più seria.

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