Noi ragazzi dello zoo dello sport

Pubblicato su Sportivissimo, Luglio-Agosto 2011

Negli anni ’90, una campagna pubblicitaria per Benetton Sport System firmata da Oliviero Toscani fu un clamoroso insuccesso. Nel momento di maggior notorietà del duo industrial-artistico, quella pubblicità “sportiva” fu bloccata e non uscì mai sui giornali italiani. Se la si cerca oggi su Internet, non la si trova. Se la si cerca sulle tante pubblicazioni che studiano quello che è stato il fenomeno di comunicazione pubblicitaria più eclatante degli anni Novanta, neppure. Scomparsa! Era scandalosa, come il bacio tra la giovane suora e il giovane prete? Era provocatoria, come i tre cuori umani identici anche se di tre uomini dal diverso colore della pelle, scura, gialla e bianca? Era di denuncia politica, come l’abbraccio tra il giovane israeliano e il giovane palestinese? Di polemica, come il giovane morente di HIV attorniato dai parenti con il volto della passione del Cristo? L’immagine era di uno scarpone da sci vicino a una siringa e la frase diceva: “sport dipendenza”. La pubblicità uscì in Germania, ma in Italia no. Evidentemente il nesso sport-siringa-dipendenza, quindi droga, era nell’Italia cattolica, nell’Italia divisa tra nord e sud, nell’Italia politicamente e socialmente indifferente più inaccettabile dell’espressione di sentimento tra due religiosi, dell’immagine che mostrava agli italiani razzisti come i cuori umani sono tutti oggettivamente uguali, del pacifismo duro e puro dei giovani idealisti, infine più blasfema del dire che la passione del Cristo oggi è la passione dei malati di Hiv e delle loro famiglie. Eppure quella pubblicità rivolta agli sportivi voleva esprimere un’idea semplice: dopo aver provato materiali così prestazionali, non riuscirai più a farne senza. Tutto qua. In sostanza era la pubblicità meno scandalosa, provocatoria, irriverente di Toscani-Benetton. Ma l’aver usato la siringa fu un errore. Ci furono subito quelli che vi videro il doping. Ovvio, il doping non c’entrava nulla, ma tanto valse a farla scartare.
Invece quella pubblicità, di là da quello che voleva esprimere, diceva una cosa vera. Lo sport crea dipendenza. Più se ne fa e più se ne farebbe. Appena s’inizia, si esagera subito con le dosi. Ci sono quelli che stanno male se non fanno il loro allenamento quotidiano, e anche quando sono stanchi o non ne hanno la minima voglia, devono farlo comunque. Temono che, stando fermi qualche giorno, svanisca quello che con fatica sono riusciti a fare. E poi vogliono crescere, migliorarsi sempre, non sono mai soddisfatti. Domani si dovrà sempre essere migliori di oggi. E allora via ad accumulare ore su ore, magari trascurando il lavoro, la famiglia, perfino la cura di altri loro interessi. Il rischio della dipendenza da sport è che si viva chiusi nel mondo della propria disciplina, interessandosi solo a ciò che la riguarda, diventando dei monaci sopra una bici, un paio di sci, attorno a un pallone, avulsi da tutti e da tutto. Però c’è un rischio anche peggiore: dalla dipendenza per il proprio sport si può passare all’overdose e da un momento all’altro mollare tutto e smettere per sempre. E questo è un rischio tipico del nostro modo occidentale di considerare l’impegno – non solo quello sportivo ma anche quello lavorativo – come performance, come crescita continua, mentre in culture come quella giapponese l’impegno non è volto al risultato in sé ma al mantenimento più a lungo possibile di una condizione che si ritiene ottimale. Vince, insomma, non chi continua a migliorarsi, ma chi non peggiora mai.

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