Valdagno, la favorita

Pubblicato su Marana York – Luglio 2011

Quello che ho detto e quello che non ho detto, ma che avrei voluto dire, se non avessi preso la parola all’inizio della terza ora di conferenza, la sera – felicissima – di venerdì 10 giugno 2011 in occasione della presentazione del secondo tomo del libro di Domenico Franceschi, Una giornata di Rotello Spanevello.

Sulla copertina di questo secondo volume, come tuttavia già in quella del primo, oltre al titolo c’è questa definizione: “operetta morale in quattro tomi”. Dividerò il mio intervento sui primi due termini ‘operetta’ e sull’aggettivo ‘morale’ che l’arricchisce. Si tratta, relativamente al primo, di un evidente uso ironico. Questo lavoro progettato in 4 tomi è tutt’altro che un’operetta: non lo è per dimensioni: 2000 pagine; non lo è per struttura narrativa: 200 personaggi, con il personaggio principale, Rotello, che nelle prime 1000 pagine non viene mai nominato; non lo è, un’operetta, per unità di luogo: sono circa 20 i punti cospicui di questa città di V, dietro alla quale è facile riconoscere Valdagno, in cui avviene l’azione, anzi la non azione, dato che non c’è una trama narrativa identificabile. Delle tre celebri regole di scrittura cinquecentesche ispirate al libro della Poetica di Aristotele, qui si rispetta solo quella dell’unità di tempo: è pomeriggio di un giorno successivo a domenica 17 luglio (ecco, questa è l’unica traccia di un riscontro temporale abbastanza preciso da cui è possibile, senza tuttavia alcun particolare beneficio, risalire a un’ipotesi dell’anno in cui avviene ciò che si narra: tra gli ultimi venti anni del Novecento, due sono gli anni in cui il 17 luglio cade di domenica: il 1983 o il 1994, il precedente è il 1960, ma è troppo lontano) è pomeriggio, dicevo, piove e fa caldo, e – ecco il fatto – in tutta la città di V si sta parlando. L’evento è questo, altro non accade, se non appunto un fitto rincorrersi di tesi e antitesi sugli argomenti più vari. Nella Cittanova a sud, dove gli immigrati si sono più integrati, la quaestio è sulla lingua; dall’altra parte della valle, sempre a sud, si parla di musica, di jazz, ma anche di etica; al Poggio Miravalle, ovviamente, di astronomia; in zona Titon, Rio, di utopie e di economia; al bar commercio della pesa, vicino al fu Utile et Dulci, di teatro; a Marpiassa, nel cuore del paese, di poesia e così per un’altra dozzina e più di luoghi: c’è evidentemente un nesso tra luoghi e temi in questo libro anomalo, estremo, che tutto è fuorché una “operetta”. Nell’impiego ironico del termine, allora, possiamo dire che Franceschi, il quale è uno scrittore raffinato, abbia voluto alleggerire l’aggettivo – pesantissimo – che segue, quel “morale” appunto, che oggi è la parola in assoluto meno stampata nel mondo. Insomma l’autore ha cercato, disperatamente cercato, di dar leggerezza a quello che questo libro di fatto è: un’opera morale. Se non lo si intendesse così e si volesse, viceversa, avvicinarlo ai capolavori della letteratura novecentesca per l’utilizzo di alcune forme d’avanguardia ad essi affini, di fatto la distanza temporale tra il Bloom’s day e il Rotello’s day, tra l’attesa di Godot e quella di Rotello, tra l’arte del dialogo di Ionesco e l’affabulazione infinita di Rotello – distanza temporale che va ben oltre il mezzo secolo in media – lo farebbe inevitabilmente essere un epigono di provincia. Ma Rotello non è un romanzo d’avanguardia letteraria, così come quel suo riutilizzo senza leggerezza e senza ironia di tutte le tecniche del romanzo del XX secolo, non lo fa essere un romanzo postmoderno. Rotello si salva dall’essere un epigono di provincia e dall’essere un incerto romanzo postmoderno, per essere, appunto, un’opera morale. Qui sta la ragione della sua necessità e quindi è qui, nella ricerca del bene in esso contenuto, che dobbiamo trovare la forza per affrontare la fatica della sua complessa lettura. Ma quel è, allora, il seme di bene che Rotello offre al lettore?
Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro, risalire agli archetipi letterari di Domenico Franceschi, a quello che è il nucleo d’origine della sua ispirazione su cui si fonda la ragione prima del suo dover scrivere. Sebbene Franceschi sia uomo di ottime letture e ogni sua pagina sia intrisa del pensiero dei maggiori pensatori del secolo scorso, i suoi modelli letterari non si trovano, come verrebbe da pensare, tra essi ma nella storia di Valdagno. I suoi ispiratori, lo dico senza incertezze, sono Bernardo Bocchese e Giovanni Soster. La loro influenza è totale: formale, Franceschi ha come il Bocchese l’ossessione del cronista di fissare il fatto al tempo, all’ora, addirittura al minuto e poi questo al luogo esatto in cui il fatto è avvenuto, mentre ha del Soster l’aristocrazia della penna e delle letture; e un’influenza morale, Franceschi sente di dover continuare l’opera che fu loro, dando testimonianza del proprio tempo. Allora come il Bocchese ci ha raccontato la Valdagno a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo e il Soster quella della seconda metà dell’Ottocento, Franceschi lo fa del secolo scorso, la Valdagno prodigiosa ed effervescente del Novecento. E per farlo non ha adottato, come i suoi predecessori – ecco la novità, il colpo di genio – un criterio storico, ma ha scelto un registro letterario, sapendo che la Grandezza e la Verità richiedono solo e soltanto la parola della letteratura, come si sa dal caso Socrate, buon domatore di cavalli per lo storico Senofonte ma vertice del pensiero occidentale per il filosofo-letterato Platone; come ci ha spiegato Umberto Eco, quando faceva notare che il Papa e il Dalai Lama certamente dissentano sulla natura divina di Cristo, ma certamente concordano nel dire che Gregor Samsa è morto scarafaggio e Anna Karenina sotto un treno. Solo la letteratura sa raccontare la Grandezza e solo la parola letteraria è Verità per se stessa. Franceschi ha intuito che il secolo d’oro di Valdagno aveva necessità della parola letteraria più di quella storica e così lui non ce lo racconta ma ce lo ricrea parola per parola, pensiero per pensiero fino a darci la Grande Valdagno, nata con la Città Sociale e terminata, a mio giudizio, con la morte di Franco Meneguzzo, passando attraverso personaggi di pura oralità come Sergio Perin, eventi prestigiosi come i Premi Marzotto, critici militati come Salvatore Fazia, casi editoriali come i Quaderni Valdagnesi e tanti altri in un tempo e in una città in cui tutti parlavano, tutti leggevano, tutti pensavano; una città che correttamente Salvatore Fazia ha chiamato “Valdagno città d’arte”.
Questo libro va allora usato come uno scrigno, aprendolo e leggendo una pagina qualsiasi ci s’immerge – leopardianamente si naufraga – nella Valdagno del XX secolo, dove tutti i maggiori libri del secolo sono stati letti, dove l’intellettualizzazione universale era esercizio quotidiano, dove il semplice, il banale erano banditi, dove il pensiero era sempre alto. Una volta è stato chiesto a Chagall perché mettesse tanti personaggi nei suoi dipinti e lui ha risposto che ne metteva più possibili perché li voleva salvare ponendoli al sicuro all’interno dell’opera. Franceschi ha fatto la stessa cosa: 200 personaggi della Valdagno novecentesca li ha messi in Rotello per salvarli e con loro e attraverso loro noi tutti perché quei personaggi siamo noi stessi. (Ne è un esempio-segno l’appellativo che fa da titolo al libro, Rotello Spanavello, identico nel cognome e nella prima sillaba del nome a quello di un sindaco della Valdagno del secolo scorso). E’ questo il seme di bene contenuto in Rotello, restituirci al tempo in cui vivevamo pensando. Non voglio essere astratto e farò due esempi. Tutte le città d’Italia, grandi e piccole, vivono la contraddizione di usare le loro piazze, che sono spazi d’incontro tra le persone, come parcheggi d’auto e le rotonde, che sono snodi stradali, per l’arte urbana. Niente è più antistorico di ciò, più anti rinascimentale, ovvero più anti italiano (‘italiano’ nel senso alto del termine) e così oggi nelle rotonde trovano collocazione i decori più ignobili che si possano pensare e fare. Valdagno finora ne è stata immune e non per merito di un singolo – artista, intellettuale, politico – che ci abbia illuminato tutti, ma proprio per ragione di quella metafisica del luogo di cui è pieno Rotello, una metafisica che alleggia ancora sopra il nostro cielo e che fa di Valdagno “La Favorita”, che non è il nome del parco cittadino, come i più credono, ma è l’identità della città stessa. Valdagno era la favorita per il suo fermento culturale, così come lo era per essere l’unica città al mondo con una campagna nel suo centro: se New York aveva un parco, noi avevamo una tenuta con tanto di aziende agricole. Gaetano Marzotto aveva capito che ci saremmo un giorno cibati di polli cinesi, di mucche inglesi, di cetrioli tedeschi, di hamburger francesi: i Valdagnesi e i loro figli sarebbero stati favoriti dal nutrirsi di polli, manzi e ortaggi della loro valle. Valdagno era verde prima che nascessero i Verdi; era bio prima degli ecologisti. Franco Meneguzzo l’ha dipinta tutta verde fin dagli anni Cinquanta e per i successivi vent’anni non ha fatto che quadri verdi. Se posso dare un’idea per il futuro, vedo Valdagno una città tutta verde. Portiamo il bosco che è a ridosso della nostra città lungo le nostre strade, impiantiamo grandi alberi davanti ai condomini, davanti ai capannoni; facciamo il primo centro cittadino al mondo tutto di prato come un green, come un campo di golf. La storia ci dice che siamo più verdi noi di quanto lo sia Berlino che vuole farsi riconoscere come la capitale verde, dato che Berlino non ha mai avuto nel suo centro una campagna, come non c’è nessun pittore del verde tra i suoi artisti. Rotello ci insegna in fondo questo: abbiamo vissuto tutto un secolo pensando e discutendo tra noi, cercando una nostra via verso la conoscenza e verso i valori in cui credere. Lo abbiamo fatto bene: anni dopo possiamo dire che certe idee le avevamo azzeccate… la campagna nel centro città, il verde come colore dominante… Oggi, senza paura, dobbiamo continuare a fare ciò, a vivere pensando, a dare idee, a discuterle tra noi.

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