Il mito di sciare

Pubblicato su Sciare – gennaio 2009

Sono 15 anni, mi verrebbe voglia di scrivere “quindici” in lettere come se fosse possibile dar loro una dignità letteraria, che scrivo su SCIARE. Nel 1995 inviai un fax al direttore Di Marco senior in cui mi proponevo per una serie di articoli sullo sci e la letteratura. Dei momenti di gioia si ricordano dettagli incredibili. Per esempio il punto esatto di uno skilift che oggi non c’è più in cui ho ricevuto la notizia che ero invitato a Milano per parlarne; ricordo il viaggio, la ricerca di un parcheggio vicino a via Vitruvio, l’ingresso in redazione. Mi ero preparato. Avevo letto un bel po’ di editoriali del direttore. Avrei saputo stupirlo con dettagli sui suoi modelli giornalistici che solo lui, che scriveva così, ed io, che avevo studiato i suoi pezzi, potevamo condividere. Peter Wellington del Kansas City Star, per esempio. Di Marco, invece, lo incontrai per un secondo, appena il tempo per ricordarmi che era vestito come un direttore d’orchestra in una seduta di prove: calzoni neri e dolcevita uguale. In quell’attimo fui presentato al suo vice. Notai che si davano del ‘lei’ anche se lavoravano assieme da più di vent’anni. Il vice era di un’altra scuola giornalistica, quella breriana, che con quella del direttore sta come i discesisti agli slalomisti. Ma la lezione fu chiara e univoca: il ‘lei’ era imposto. Gli sci appesi alle pareti di palazzo Rusconi, quindi, erano richiami confidenziali per anime semplici. Proprio come quella stanza fuori dalla quale c’era una modesta targa di legno con scritto “La Baita”. In occasione della premiazione del Concorso Letterario “Sciare-Dolomite”, parlai nel chiostro leonardesco delle Stelline ma nella “Baita” non ho mai messo piede. SCIARE alimentava il proprio mito negandosi, come Salinger o come le dive del cinema di una volta. Ero accettato ma non ero dei loro. Questo non valeva solo per me. Era un principio morale. SCIARE sarebbe stato sempre più importante di quello che io o chiunque altro avrebbe potuto scrivere. Se qualche lettore gentile apprezzava uno scritto e lo faceva sapere alla redazione, il complimento rimaneva lì. Non erano i singoli articoli ma la rivista nel suo insieme a valere. Una volta un mio pezzo ispirò il Ministro degli Esteri, Franco Frattini, a scrivermi una lettera. Lo scoprii solo leggendo il numero successivo, dove, accanto al mio nuovo Spigoli, c’era il Ministro che attaccava con un: “Caro Borgo…” Non accadde altro. Differentemente da come va oggi il mondo, non si sarebbe mai accettato un commercio di penne da una testata all’altra. Il denaro era un dettaglio insignificante. L’onore di scriverci era sufficiente a se stesso. Ciascuno di noi era chiamato a partecipare, numero dopo numero, all’edificazione di quello ziggurat che avrebbe portato lo sci italiano a toccare il cielo, come ha scritto Ernesto Ferrero in un bel libro sulla casa editrice Einaudi. I più grandi sciatori avevano lottato, vinto, perduto per finire su una pagina di SCIARE. Scriverci era dar loro esistenza e memoria. Andava da sé che una cosa più importante non esisteva. Quando scoprii che Walter Tobagi, qualche anno prima di essere ucciso dalle Br, aveva fatto parte della redazione, ne fui orgoglioso al punto che osai mandare una lettera al direttore. Mi rispose. Credo che cercasse il carattere tra i suoi collaboratori e non gli dispiacesse affatto che su ogni nuovo numero ci fossero almeno un paio di pezzi che non venivano letti da nessuno. Non mi avrebbero tenuto lì per 15 anni, altrimenti.

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