La mala educaciòn
Pubblicato su Sportivissimo – settembre 2006Inizia un nuovo anno scolastico e lo sport continua a rimanere fuori dalla porta della scuola italiana. Con l’accusa, infamante, di distrarre i giovani dallo studio. Prepariamoci allora a un altro anno con le solite anomalie: interrogazioni il lunedì mattina a chi ha la faccia di essere andato a sciare, a giocare a calcio, a pallacanestro, a praticare, con impegno, il proprio sport. Da decenni la scuola italiana adotta la stessa logica di quei vigili urbani che si nascondono dietro ai cespugli con l’autovelox. Un modo decisamente molto italiano di far crescere i nostri giovani al valore supremo della furbizia come rapporto con l’Istituzione, che fa per prima la furba. Siamo insomma alle solite: per essere bravi, colti e poeti bisogna essere brutti, pallidi e con la gobba. Se uno è bello e atletico e pieno di vita deve essere scemo, dato che la natura non premia, ma compensa e se non lo fa lei, che in realtà l’ha fatto davvero di rado, dato che piuttosto la natura esagera, ci pensa la nostra scuola. Eppure uno che se ne intendeva di cose di questo mondo, e in quanto a fisico mica era messo tanto bene, ha scritto che “gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non erano solamente utili alla guerra, o ad eccitar l’amor della gloria ecc., ma contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigore dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo debole”. Quanta voglia di sport in questo passo dello Zibaldone (115). E a proposito della bellezza, Cicerone e Velleio Patercolo hanno scritto che Cesare era l’uomo più bello di Roma, e Appiano lo paragonava ad Alessandro per avvenenza e vigoria fisica. Se l’uno ebbe niente di meno di Aristotele come educatore, Cesare ebbe Archia per gli studi poetici, Apollonio per l’Oratoria e lo zio Mario per le arti militari. Così imparò a scrivere, a parlare e a cavalcare e conquistò il mondo, ma nella scuola italiana odierna come se la sarebbe cavata un poeta che cavalca? Un oratore che combatte? E per giunta bello! Nella scuola dove lo sport non ha dignità, è il corpo ad essere il primo imputato. La sua bellezza e la sua vigoria la prima colpa. C’è forse un antico condizionamento religioso in tutto ciò? La fisicità come impedimento alla spiritualità dell’uomo? Oppure ci sono ragioni politiche? Durante il Ventennio vigeva l’atletismo marziale dell’italietta fascista. Il Duce in canotta a mostrare la forza della gens italica a cui è stato opposto il modello dell’intellettuale sessantottino, segaiolo, con i braccetti sottili appena in grado di voltare una pagina in carta d’India, ovviamente occhialuto, con o senza miopia. La voce stentorea del “Predappio fesso” (Mussolini per Gadda) versus il vocino affettato ed effeminato del Siddartha di provincia. Non sarà ancora una ragione politica, oggi prepotentemente riemersa come antiamericanismo, a privare i nostri giovani di una completa e moderna formazione della mente e del corpo? Quanto potrà ancora durare questo innaturale dualismo? La buona scuola dovrebbe risolvere una dicotomia così ridicola. Già la generazione di noi quarantenni ha dovuto imparare che non si studia per il lavoro che poi si farà, ma si studia per fare un qualsiasi lavoro. Cioè si va a scuola per imparare a usare la testa, per acquisire un metodo o un’esperienza di apprendimento. Si studia per imparare a vivere, come Aristotele insegnava ad Alessandro. Valori supremi che troviamo identici nello sport, dove l’impegno e l’allenamento, dove la conoscenza di sé e della tecnica, dove lo studio della strategia di gara sono fondamentali per riuscire a dare il massimo in un confronto – attenzione! – in cui nessuno si nasconde dietro ai cespugli o istituisce gare a sorpresa; dove la lealtà, il rispetto delle regole sono imprescindibili. Ovvietà note dal tempo dei greci e ben note anche a Leopardi quando scriveva che le istituzioni antiche erano “tendenti a formare l’entusiasmo, le illusioni, il coraggio, l’attività, il movimento, la vita”. Quanto la nostra scuola risulta barbara e terribilmente ignorante e mostruosamente complessata rispetto a quest’altro passo dello Zibaldone (271-2).
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