Le “Crepe” nell’opera di Gibo Perlotto
“La mia non è una battaglia antimoderna ma un fatto di identità e civiltà.
La marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto ricco di arte
e di memorie è arrivata ad alterare la consistenza stessa della terra che ci sta sotto i piedi.
I boschi, i cieli, la campagna sono stati la mia ispirazione poetica fin dall’infanzia.
Ne ho sempre ricevuto una forza di bellezza e tranquillità. Ecco perché la distruzione
del paesaggio è per me un lutto terribile. Bisogna indignarsi e fermare lo scempio
che vede ogni area verde rimasta come un’area da edificare»”.
Andrea Zanzotto
Le crepe della terra riarsa e incolta della campagna veneta trasformata in un’enorme scriteriata zona industriale; le crepe dei muri delle case rurali abbandonate nel Veneto del nuovo benessere, tracce inequivocabili di una radicale trasformazione sociale e umana, sono i temi e i segni che hanno ispirato le Crepe, grandi lastre ferrose ognuna con una propria tellurica incrinatura, di Gibo Perlotto, una delle voci più alte e significative dell’arte fabbrile italiana contemporanea. Nato a Trissino, Vicenza, nel 1959 da un’antica famiglia di maestri del ferro, il bisnonno Antonio Lora fu uno dei massimi artisti fabbrili tra Otto e Novecento, Gibo Perlotto da oltre quarant’anni conduce la sua personalissima “battaglia per la civiltà”, attraverso un articolato quanto coerente discorso artistico, al cui centro egli ha posto l’essenziale riflessione sulla perdita delle radici dell’uomo del nostro tempo. E lo ha fatto, questo discorso sull’identità perduta dell’uomo nell’età della Tecnica, con straordinaria preveggenza a partire dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, quando fu tra i primi a intuire la fine di una certa idea di mondo, legata alla terra e ai suoi millenari valori, e l’inizio di una nuova concezione dell’esistenza, in cui sempre più potentemente il virtuale avrebbe sostituito il reale, i procedimenti sistematici del calcolo algoritmico, l’accidentale e imprevedibile ordine naturale; gli ineffabili cloud, la spazialità terrestre; i pixel, l’atavico ferro. Un mondo completamente nuovo, in sé affascinante, ma un mondo che nella sua atomica carica innovativa avrebbe, come di fatto è avvenuto, spazzato via antichi valori e antichi saperi, lasciando l’uomo del presente pericolosamente privo di quell’identità che viene solo dalla conoscenza delle proprie origini. Una discesa alle radici, quindi, quella di Gibo Perlotto, potente e radicale, ma affatto nostalgica. Egli, infatti, non ha mai teso a recuperare un sapere meramente storicistico-tradizionale a dispetto della superficialità panterrestre attuale. Gibo Perlotto non ha mai condotto “una battaglia antimoderna” in odio al progresso. Tutt’altro. Attraverso la sua opera egli ci ha fatto capire che solo dall’onesta conoscenza di sé e di ciò da cui si è venuti, le nostre origini più profonde, è possibile maturare la vita autentica e in essa quel senso di responsabilità per il Pianeta e la sua straordinaria civiltà, che ciascun uomo deve avere per avere un futuro. Altra via per l’avvenire non c’è; altra via per la salvezza nemmeno.
Da qui l’opera artistica di Gibo, maestro massimo dell’arte fabbrile, capace, come nessun altro, a dominare la materia fino alle sue estreme possibilità espressive, al punto, come da molti è stato scritto, di suscitare un sincero disorientamento da parte di chi, osservando una sua scultura, non sa visivamente riconoscere che essa è realizzata interamente in ferro. Esattezza formale e forza espressiva in opere che sono inni, omaggi e grida: inni al mondo contadino – il ciclo de “La memoria contadina”, “Le careghe”, “L’orto” – ove in modo esplicito ha esaltato la bellezza e la poesia, e attraverso esse, i valori senza fine della vita rurale; omaggi alla grande cultura, all’arte, alla musica – il ciclo dei “Libri”, “I cavalletti di pittura”, le recentissime “Partiture”; grida di dolore e di speranza – “Le crepe” – attraverso cui ha espresso il dolore per un mondo originario che stiamo distruggendo ma anche, allo stesso tempo, la speranza che da quella incrinatura-ferita forgiata nel fuoco da cui tutto, anche il virtuale mondo imperante, ha avuto origine, avvenga ancora il prodigio della genesi, il miracolo della vita trionfante.
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