L’ultimo astrattista

Pubblicato in “Il Segno artistico nella Valle dell’Agno”, 2019

È stato l’artista che in modo più radicale ha portato l’arte astratta alle sue estreme possibilità espressive fino a esaurirne le soluzioni e vivere, con estrema autenticità, la faustiana “totalità” di quella straordinaria stagione artistica, che ebbe inizio nella lezione delle avanguardie europee degli anni Venti, Kandinsky, Mondrian, Klee e che nei decenni del totalitarismo comunista, fascista e nazista rappresentò, con la potenza del suo linguaggio svincolato da ogni riferimento al reale, il più alto grido di libertà. La più alta speranza di rinnovamento sociale e civile. Una stagione d’arte straordinaria che si esaurì nella sua ragione d’essere con la rivoluzione libertaria del ’68 e nella sua ragione artistica nelle prove penultime, quelle che Gillo Dorfles chiamò “Sottrazione di colore” (1960-1964), e ultime, i cosiddetti “Verdi” (1964-1973), di Franco Meneguzzo.
Una vicenda artistica, quella di Meneguzzo, di assoluta rilevanza nella storia del Novecento. Aveva aderito all’Astrattismo fin dagli ultimi anni Quaranta. Era stato partigiano. Aveva combattuto il nazi-fascismo. Aveva perso il padre nei primi giorni di maggio del 1945, ucciso dai tedeschi in ritirata. L’Astrattismo rappresentò per lui un’ideale etico-esistenziale prima ancora che una ragione artistica; fu per lui l’antidoto più efficace contro le atrocità della guerra, le barbarie delle dittature, i soprusi delle società chiuse: fu il modo più profondo per onorare il sacrificio del padre. Nessun figlio avrebbe più pianto la morte del proprio padre, ucciso per ragioni ideologiche, come capitò a lui e a tanti della sua generazione, in una società in cui gli artisti avrebbero praticato l’arte astratta, dato che nessuna verità ideologica sarebbe stata possibile in quella società i cui artisti sarebbero stati liberi di dipingere la pura forma, il segno libero, l’inconscio impulso interiore.
Per Meneguzzo, quindi, l’Astrattismo è essenzialmente un’appartenenza dello spirito. Per questa ragione non ne potrà mai tradire il codice. Così, quando verso gli inizi degli anni Cinquanta, elabora una sua personalissima tecnica di “sottrazione del colore”, che lo dota di un vero e proprio idioma artistico assoluto e unico, si spinge in due sfide dalle quali la pittura astratta si era programmaticamente tenuta lontana: la bellezza classica intesa come misura, armonia, simmetria, composizione, accordi cromatici e il discorso etico-civile.
Per il primo dei suoi fini Meneguzzo recupererà dalle sue precedenti esperienze lo spazialismo del geometrismo astratto e le combinazioni cromatiche sperimentate nel suo periodo informale. Il risultato è sapienza di composizione e sapienza di colore. Estro ed esattezza. Precisione e ispirazione. Poi, per l’altro suo fine, il discorso etico-civile, riutilizza il rigore geometrico, i moduli a strappo, ma le combinazioni cromatiche sono, adesso, nella scala del verde. Il primo quadro del periodo “Verde” è del 1963 e ha per titolo “Il verde è necessario”. Meneguzzo fu il primo in arte, come lo fu Zanzotto in letteratura, a comprendere che il grande tema della contemporaneità sarebbe stato la vita dell’uomo nell’età della tecnica tra la necessità del progresso industriale e la necessità della conservazione naturale.
Ma inseguire la bellezza classica e il discorso etico-civile sono operazioni decisamente estreme in quel codice astratto che aveva i suoi principi nello spontaneismo del gesto, nel segno che originava dall’inconscio, nell’accidente casuale, nell’automatismo robotico, nella materia abrupta. Meneguzzo è il primo a capirlo. Come lo è a comprendere che l’Astrattismo e il suo credo di rinnovamento sociale avevano perso il loro contenuto di avanguardia nella società aperta che si era maturata a seguito della rivoluzione libertaria del Sessantotto. Così, come l’alpinista che raggiunta la vetta non può far altro che scendere, egli dal vertice estremo dell’esperienza astratta non può che arrestarsi lì. E quindi, in assoluta coerenza, smetterà di dipingere. È il 1973. Ha solo 49 anni. Per i successivi 35 anni di vita, senza mai alcuna incertezza, sarà un artista in off, impersonando, appunto faustianamente, la fine di quella strepitosa stagione artistica che fu l’Astrattismo.
Ebbene, in virtù dell’esperienza artistica-esistenziale di Meneguzzo, possiamo distinguere l’Astrattismo storico dall’Astrattismo di maniera, in cui il primo, che ha origine negli anni Venti e si conclude, come abbiamo detto, con il ciclo dei “Verdi” nel 1973, ha il carattere distintivo di collegare l’immagine non figurativa a un discorso metalinguistico di libertà sociale, mentre il secondo, che ha perso definitivamente ogni riferimento storico-sociale, ha eletto l’immagine astratta a espressione del puro segno, della pura forma, del panico colore, della libera, inconscia, lirica, psichica emozione artistica, assurgendo a canone senza tempo dell’arte.
Per tutto ciò l’opera di Franco Meneguzzo rappresenta un punto primo e imprescindibile nella storia dell’arte del XX secolo.

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