L’opera artistica di Albero Corrà

Pubblicato in Marana York, 2019

Di quell’esperienza felice e irripetuta che fu la Libera Scuola di Disegno e Pittura Marzotto, attiva tra il 1951 e il 1964, più Art Studio che Accademia per la formazione e l’età, dai 15 ai 25 anni, quanto mai diversa dei suoi allievi e per le personalità autenticamente artistiche che vi militarono, Alberto Corrà fu colui che in modo autentico risolse la lacerante contrapposizione, propria di quegli anni, tra figurazione e astrattismo, che coinvolse anche i partecipanti della Scuola stessa. Se tutti, Corrà compreso, vi erano entrati come pittori figurativi, e tutti avevano conosciuto l’arte astratta attraverso il magistero di Angiolo Montagna, solo una parte di essi, però, divenne un pittore della nuova tendenza artistica. La Scuola, pertanto, si divise. Da un lato i figurativi, dall’altro gli astrattisti. Entrambi, tuttavia, incentivati e supportati nella loro scelta dal Maestro, il cui primo insegnamento era l’assoluta libertà e autenticità del sentire e del fare artistico, conditio imprescindibile per aspirare all’arte.
Quella che sembrava quindi una contraddizione, figurazione contro astrattismo, e che lo era, feroce, nel panorama dell’arte italiana, nella Scuola era solo una diversa possibilità espressiva, che Montagna opportunamente alimentava, promuovendo incontri con artisti di entrambe le tendenze. Neri Pozza e Santomaso, per esempio, tennero convincenti lezioni sul Vedutismo lirico e sull’Informale, di cui erano, rispettivamente, tra i massimi esponenti in Italia. Oppure con visite alla Biennale di Venezia e di Verona, oltre, ovviamente, a lunghe sedute di studio in occasione delle rassegne dei premi Marzotto, che in quegli anni da nazionali divennero internazionali.
Corrà, quindi, dopo un inizio figurativo che lo impegna per circa gli anni in cui sarà attiva la Scuola (1954-1964) e un secondo decennio (1964-1974), in cui produrrà opere nei canoni di un espressionismo astratto, trova, al termine di questo lungo e tormentato ventennio di ricerca, il superamento di ogni dualismo tra figurativo e astratto in una personale operazione di sintesi tra i due generi, per cui, dal 1974 in poi, le sue opere presenteranno felicissime soluzioni combinate dell’uno e dell’altro. Così tele e sculture di Corrà si ascrivano in uno speciale genere astratto-figurativo, che sarà il carattere del suo nuovo linguaggio e che, relativamente alla scultura, lo avvicinerà all’opera di artisti quali Henry Moore e Costantin Brancusi.
Per cui nelle tele, su una matrice indubbiamente astratta di potenti segni e di armoniose sfumature cromatiche appare sempre il profilo di una figura, talvolta appartenente al mondo della natura, come nelle opere del ciclo delle “Selve”, talvolta, all’opposto, al mondo artificiale, come nei disegni a china, in cui compiono i profili contrapposti di due futuristici golem. Mentre nelle sculture, in specie nelle opere del ciclo degli “Abbracci”, questa sintesi astratto-figurativo avviene tra la figura umana, espressa molte volte anche dalle proporzioni antropomorfiche dell’opera, e una forma spiralizzata, ovalizzata, appunto, alla Brancusi, striata e levigata come fosse stata modulata dal vento.
Corrà ottiene così la sua sintesi formale: la novità dell’immagine, il “mai visto prima” dell’astrazione fuso con il conosciuto, il “già visto” della figurazione. Sintesi formale che si traduce con assoluta coerenza anche in una sintesi sul piano tematico. Tutte le opere dal 1974 a oggi presentano l’unione di due elementi. D’incontri tra polarità. Nei “Golem” le figure neo mitologiche, poste ai lati del quadro, che si guardano l’una l’altra, hanno sempre un punto di contatto: un’immagine, talvolta rappresentata da una cartolina incollata o da un ritaglio di giornale, in ogni caso una memoria da salvare; negli “Abbracci” c’è l’incontro tra uomo e donna, tra due amici, tra due matrone; nelle “Natività” l’unione tra la Madonna e il Cristo è l’unione di ogni madre con il proprio figlio. Nelle opere più recenti la dialettica tra polarità si fa ancora più estrema: la scultura non è più soltanto lavorata all’esterno, come in genere avviene, ma anche al suo interno. Dalla superficie al suo incavo, dove ancora il risultato è quello della sintesi di fuori-dentro. E come se Corrà volesse indicarci che in quell’infinita contrapposizione che è l’esistenza umana (Eros e Thànatos) è sempre possibile una sintesi. E ce lo dice nella purezza di una forma plastica che contiene, nel suo “vorticismo”, l’energia immensa delle unioni da cui si genera la vita stessa.
Così con le “Cattedrali di grano” abbiamo la sintesi suprema. L’unione tra l’uomo, che costruisce le cattedrali, che sono il luogo della “cathedra” da cui s’insegna la parola di Dio, e la natura, che offre il dono divino del grano, primo alimento della terra, essenziale alla vita dell’uomo. Cultura e Natura: questa è la sintesi suprema. Che Corrà vive anche su un piano emotivo personale tra il mondo rurale da cui è venuto, e che non ha mai dimenticato, e la cultura intellettuale, a cui è pervenuto e che costituisce il suo presente d’artista; tra la sua natura di uomo buono e generoso, sempre pronto a condividere con gli amici i suoi pensieri d’arte, e il suo essere “gaulois”, duro e rude come lo sanno essere i francesi quando ti “fumano” in faccia quello che pensano di te. Ma le cattedrali, simbolo dell’orgoglio umano, ne sono anche un monito d’umiltà. Perché mai gli antichi maestri delle cattedrali riuscivano a vedere in vita la loro opera terminata. Le cattedrali hanno tempi di costruzione secolari. Senza fine. Che superano la misura della vita dell’uomo. Ecco, allora, il discorso di Corrà: come i tempi infiniti delle cattedrali, così sono i tempi del fare dell’uomo: i tempi infiniti dell’arte e di ogni altro fare veramente profondo e in specie di quel fare che è il più profondo di tutti: il diventare “vita” nella sintesi di ogni nostra esistenziale contrapposizione.

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