Il limite irrisolvibile dell’insegnamento scolastico, senza colpa degli insegnanti; il pregio infinito dell’insegnamento sportivo, senza merito degli allenatori.

Pubblicato in Sportivissimo, dicembre 2014

Perché è più facile che un ragazzino sia più bravo a sciare che a scrivere? Più bravo a tirare con la palla che a fare di conto? Perché i nostri figli in genere sono più bravi nello sport che a scuola, malgrado il tempo passato sui banchi e a casa a fare i compiti sia decisamente di più rispetto a quello passato sulle piste o al campo da calcio? I ragazzini sanno tenere l’esterno sulla neve ghiacciata o tenere basso un pallone colpito di collo pieno come i grandi, perché non danno la stessa dimostrazione di capacità anche nei compiti in classe? Forse perché è più facile lo sport delle materie che s’insegnano a scuola? Direi di no, qualsiasi sapere può essere facilissimo e difficilissimo allo stesso tempo. Facilità o difficoltà non dipendono dall’argomento in sé ma dal livello d’impegno mentale necessario per affrontare l’argomento. Allora? La ragione per cui i nostri ragazzini sono più bravi nello sport che nelle materie scolastiche dipende da come lo sport viene insegnato. Non si tratta di particolari metodi didattici, ogni allenatore ha i propri; si tratta dell’atteggiamento mentale con cui i ragazzini si avvicinano a ciò che devono imparare. La loro positività d’approccio. Sembra un’astrazione ma non lo è affatto. È invece il grande pregio dell’insegnamento dello sport, il limite irrisolvibile dell’insegnamento scolastico.
Allo sport i ragazzi si avvicinano positivamente perché lo sport è divertimento. Non è così la scuola, che è vista come un dovere e infatti, fino a 16 anni, si chiama “scuola dell’obbligo” tanto che chi non ci volesse andare, sarebbe portato a forza dai carabinieri. Oggi perfino nel mondo del lavoro vince chi prova divertimento a fare quello che fa. Se c’è divertimento, c’è gioia e imparare diventa giocare. Per tutti i ragazzini del mondo giocare è ciò che si fa con la massima serietà e con il massimo impegno. Nello sport s’impara presto e bene proprio perché i ragazzi ci mettono quella concentrazione e quella buona volontà che hanno solo, sottolineo “solo”, quando giocano. Nella scuola moderna le nuove didattiche hanno inserito il gioco per riuscire a interessare di più i bambini ai verbi e ai calcoli: i testi di studio sono tutti a fumetti, gli esercizi sono in forma di giochi, si fa un gran uso del disegno come forma di espressione, ma la cosa non funziona. Perché il gioco sia vero, i bambini devono credersi adulti mentre giocano. Se rimangono bambini, il gioco non funziona. Nello sport, gli sci dei ragazzi sono uguali a quelli dei campioni di Coppa; le magliette da calcio sono quelle delle grandi squadre di Champions. Sarebbe inimmaginabile un’attrezzatura appositamente infantile come lo sono i testi scolastici! Nello sport credersi campioni cioè adulti accade sempre. Nella scuola mai. Purtroppo non si tratta solo di una questione di strumenti didattici, che sarebbe risolvibile, basterebbe imporre la cravatta come fanno i college inglesi. La questione è più profonda e per questo è irrisolvibile.
L’allenatore sa vedere nel bambino il campione che sarà domani. Non lo fa per bontà o per furbizia. Lo fa perché non può fare altrimenti se vuole egli stesso sentirsi “allenatore”, cioè uno che è tale solo se si relaziona con un atleta che vuole vincere. L’allenatore vede nel bambino l’adulto che sarà e questo motiva, responsabilizza, sprona al massimo il piccolo atleta a dare il meglio di sé. L’insegnante, invece, per la stessa ragione e senza colpa, non riuscirà mai, anche se lo volesse (ecco perché non ne ha colpa) a vedere nello scolaro il laureato e il professionista di domani perché, se così facesse, annullerebbe se stesso dato che quando uno studente s’immagina dottore, cioè colui che sa, non ha più necessità dell’insegnante, di colui che insegna. L’impossibilità di vedere nello scolaro l’adulto che sarà, è il limite dell’insegnamento scolastico, dove il bambino rimane bambino, quindi legittimamente soprappensiero, irresponsabile, immaturo, bisognevole di continua assistenza (è un bambino! Che altro è un bambino?) diversamente di come avviene nel gioco e nello sport.

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