L’orso di Ca-monda

Pubblicato su L’OPERA IN LEGNO, sculture di giorgio guasina; Settembre 2014

A una prima lettura potrebbe sembrare una metafora psicologica quella che Giorgio Guasina sceglie come sigla editoriale – L’Orso di Camonda – per quelle poesie e per quelle prose che sono l’ultimo impegno creativo di una vita intera dedicata alla ricerca artistica. Come l’Orso, egli sente di amare più la notte del giorno, sa di avere un carattere schivo… spigoloso… libero; come l’orso, ha imparato a rifuggire dagli uomini di cui, da tempo ormai, ha conosciuto l’ingratitudine, l’invidia, la volgarità per nascondersi nella sua tana alla Camonda sotto il monte Civillina, dove nei pressi Guasina possedeva un suo rifugio, un vecchio roccolo di caccia. Con questa sigla certamente egli ha voluto lasciare una traccia del suo carattere, tanto che la riprende in modo ancora più esplicito in una poesia del 2012, intitolata emblematicamente Fratello orso, tuttavia, se proviamo a leggere “Camonda” come parola composta e quindi mettiamo il trattino tra “ca” e “monda”, questa sigla editoriale non ci rinvia più al suo profilo psicologico ma al nucleo della sua poetica di architetto. Giorgio Guasina è stato il difensore, l’orso difende il proprio territorio, di un’idea di architettura, la “ca”, la casa appunto, “monda”, ovvero pura, pura nel senso dantesco dell’aggettivo, ripulita da ogni volgarità affinché essa possa ascendere “come scultura del territorio” all’empireo dell’arte. Giorgio Guasina ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca di un’idea “monda” di bellezza e l’ha fatto spinto da una gioia creativa che gli veniva da una formidabile gioia vitale. E correrò felice sulle strade deserte/ tra boschi e prati/ e case coi vecchi sulla porta/ donne accorse alle finestra/ acclamanti bambini/ e galline in fuga. E’ un ricordo del 1948, quando in sella alla sua Guzzi 500 girava per le contrade di Recoaro affamato di paesaggio, nell’esuberanza dei suoi sedici anni, dei suoi studi liceali e delle sue prime letture dei classici, della prospettiva inebriante di andare a Venezia a studiare Architettura. Come un artista impressionista a Guasina piace cercare l’ispirazione fuori dallo studio, all’aria aperta, girando in moto, salendo le montagne per sentieri d’erba al sorgere dell’alba d’aprile nel vento del mattino che porta via la notte tra il sogno e la rugiada. È uno spirito felice che si nutre dell’aria delle montagne del suo paese: salgo l’alba dei monti… Scorre felice il sangue/ nelle vene pulsanti; gioioso e vitale anche con gli amici allegri vagabondi nella notte brava, finita all’alba tra perdute osterie. Guasina ha un carattere esuberante, energico, come lo è l’Agno, il fiume della sua infanzia, giovane e pazzo/ libero e forte… luminoso. Si sente amico della vita, sa di avere talento, intelligenza, è persuaso di poter convincere chiunque alla giustezza della sua idea sia essa d’arte o politica o economica; è pronto a vivere ogni cosa in modo diretto, aperto, ora docile ora tremendo come il fiume, docile tra i sassi levigati dell’alveo chiaro/ tremendo nelle piene rombanti.
L’irrisolvibile angoscia (leopardiana: notturna, solitaria, assoluta) che pervade le sue poesie e i suoi racconti come anche alcuni pannelli dell’ultimo periodo, non origina quindi dalla sua psicologia, che anzi era, come abbiamo visto, esuberante e vitale, ma dalla profonda delusione di un bilancio senile della propria vita di militante della bellezza fondamentalmente negativo: sente di essere stato escluso, non capito, perfino non “usato” in tutto quello che il suo genio ha dato e che, se sostenuto, avrebbe potuto dare. Così le poesie presentano questa opposizione tra il tempo gioioso del prima e il tempo di amarezza dell’oggi. Esse esprimono il rammarico di chi sente di non essere stato compreso. Ci sono artisti, si pensi a Proust, a Gadda, che per esprimere il proprio mondo interiore arrivano a negare se stessi, il proprio io fisico, fino a estraniarsi completamente dalla vita vissuta per vivere, attraverso diversi personaggi, nelle loro opere. Ma ci sono artisti di temperamento contrario, si pensi a Dante, a Pasolini, per i quali il loro mondo interiore diventa il modello cui rifarsi per cambiare e migliorare il mondo stesso. Se i primi quindi vivono l’opera come un universo a sé, avulso da tutto e da tutti, indifferenti perfino dall’avere o meno lettori, gli altri sentono l’opera come una parte imprescindibile di sé: un tutt’uno di se stessi nel mondo reale. Guasina inequivocabilmente appartiene a questo genere di artisti. Sente di essere nato per fare la sua parte affinché il mondo sia più bello, più giusto, più vero e com’è consono a questo genere di artisti, egli ritiene di poter fare tutto. Non si tratta di essere semplicemente degli spiriti eclettici, ma di sentirsi “onnipotenti”. Guasina possedeva la consapevolezza, e di qui il fascino, di saper fare ogni cosa gli fosse stata chiesta o avesse deciso di fare. È architetto ma quando gli chiedono di realizzare per Recoaro un piano per il rilancio turistico del paese termale diventa urbanista e studioso di flussi turistico-economici. Su commissione sarà arredatore, designer, straordinario corniciaio per le opere dell’amico pittore Franco Meneguzzo, grafico pubblicitario e poi scultore e pittore, narratore e poeta, ma anche intellettuale, politico e amministratore cittadino. Guasina ha disegnato case per migliorare le città, ha realizzato sculture per rendere più belle le nostre case. Tutto quello che ha fatto, l’ha sempre fatto con il massimo dell’entusiasmo, della partecipazione, della volontà. Fino agli ultimi mesi della sua vita è stata questa la sua legge morale e la sua vocazione di artista. Il Fiocco di neve è stata una delle sue ultime opere e, ma solo per qualche giorno, ha avuto la possibilità di collocarla nella piazza della chiesa di Recoaro. Quella piazza non è mai stata così bella. Il fiocco è l’origine, il quark, dell’acqua di Recoaro: infiniti fiocchi cadono sui monti, la neve prima si accumula e poi si scioglie, trasformandosi in acqua che passando attraverso le rocce si arricchisce di minerali per arrivare alle sorgenti con proprietà e sapore unici. Tutto quindi ha inizio da un primo fiocco che cade dal cielo e Giorgio Guasina ne ha catturato l’idea e l’ha trasformata in scultura, realizzando per il suo paese quello che in arte si chiama un landmark, un riferimento di distinzione territoriale, un simbolo capace di rappresentare lo specifico di un luogo. Il Fiocco era qualcosa di più del gallo municipale ma ancora una volta non è stato capito tanto che prima dello sciogliersi della neve naturale che per magia in quei giorni era caduta, il Fiocco di Guasina è stato smontato.

Con il Fiocco si ripete quello che accadeva cinquant’anni prima con l’architettura, quando le sue realizzazioni ricevevano, sì, attenzione da parte della pubblica opinione ma nel profondo non venivano capite. Nell’incomprensione generale la sua architettura fu accusata di avanguardia che ai più non era gradita. Per un artista come Guasina, le critiche fatte alla propria opera sono sempre vissute come un attacco personale, quasi una negazione al proprio diritto di esistere. Per il genere di artisti cui è ascrivibile, l’uomo è l’opera e viceversa. Ne sono una prova i suoi personaggi cui dà il proprio profilo, come Dante aveva fatto di sé il personaggio principale della Commedia pur rimanendone l’autore. Guasina non è artista da isola solitaria, lui è artista pubblico; non vive coltivando in privato un’idea di sé artista ma vive nel consenso, nel riconoscimento. Siamo ancora lontani dal tempo dell’Orso schivo che si rifugia nella tana di Camonda, offeso dagli uomini, dagli eventi, dalla vita; siamo ancora nel pieno della lotta dell’Orso che difende il suo ideale di “Ca-monda”. E per questa ragione, dimostrando una capacità di seduzione e anche una certa attitudine commerciale, riesce, negli anni a seguire, con la Bottega Guasina, a farsi apprezzare da tutti, anche da chi, a suo tempo, non ne aveva riconosciuto la qualità della sua ricerca estetica. Così tutti quelli che da principio non avevano amato la sua architettura considerata troppo estrema, sono stati ben lieti di acquistare un qualche oggetto della sua bottega. Il meno popolare, per gusto, degli architetti della valle è finito a essere il più acquistato, per gusto, designer e scultore della valle stessa. Una scommessa vinta. Stravinta.

Attraverso la bottega quindi si era rimesso in gioco. Pur rimanendo se stesso, la bottega proponeva una vasta gamma di oggetti come piatti, ciotole, piccoli quadri con frutti e alberi in rilievo che servirono a far apprezzare il nome di Guasina al più largo pubblico. Guasina era sempre Guasina: ispirato, rigoroso, forte, essenziale, colto: il cemento delle case diventa l’acero bianco delle sculture; l’intonaco non finito, l’abete ruvido non levigato; le rigorose forme plastiche della sua architettura, il segno inconfondibile delle sue sculture, ma questa volta il pubblico capisce, va dalla sua parte.
Chi non si è mai accorto del suo talento o ha finto di non accorgersene, sono stati da un lato gli amministratori del suo paese, della sua valle che non gli hanno mai offerto uno spazio adeguato per collocarvi una sua opera, che non sono mai ricorsi al suo talento speciale d’artista per rendere più belle le città, dall’altro la critica d’arte che prima non ha compreso la sua architettura e poi, troppo frettolosamente, ha inventariato le sue opere tra l’artigianato d’arte, quando Mario Ceroli, producendo opere per certi versi molto affini, assurgeva, e giustamente, tra i massimi scultori dell’Arte Povera del secondo Novecento. Nell’indubbio successo della bottega, aleggia quindi sempre di più in lui l’amarezza di essere ancora escluso, messo da parte, volutamente dimenticato.
C’è una poesia pubblicata negli ultimi mesi della sua vita che s’intitola “Se mi cercherai”. È l’ultimo grido del suo io “onnipotente”, l’indicazione postuma per orientare chi avesse voluto avvicinarsi alla sua opera con intenzioni di studio. “Non mi troverai”, pare voglia dirci, “nel sapere della gente, tra i nomi illustri della città, non troverai il mio nome sulla pietra del monumento né in quello della tomba, del sepolcro foscoliano, mi troverai, se lo vorrai tu… tra le mie ‘robe’, tra le carte del mio sogno, lì troverai il senso di quello che ho fatto, di quello in cui ho creduto”. In un ripiano dell’armadio del suo studio, ci ha lasciato ordinato in cartelle tutto quello che sarebbe servito per ricostruire i suoi oltre cinquant’anni di ricerca estetica. Aveva perfino suggerito la traccia della sua poetica, scrivendone le tre parole chiave: la ragione, il caso e la materia. “La ragione”, il suo profondo sentirsi dentro la tradizione occidentale che origina nel logos greco, in quella coerenza culturale e artistica che è anche la cifra speciale della sua arte; “il caso”, il quid ispiratore dell’opera, le libere combinazioni di idee e materia, di idee e colore; “la materia”, il calcestruzzo in architettura, il legno per la scultura, la parola, meglio il sostantivo, in poesia e in prosa trattati in tutti i loro molteplici aspetti… approfonditi fino ad evidenziarne l’intima struttura organica, perché in Guasina, e sono ancora parole dei suoi appunti, la materia non è occasionale mezzo della forma: forma e materia si fondono in un’unica intrinseca concezione.

Gli anni Settanta sono gli anni dei grandi progetti architettonici. In dieci anni firma case, fabbriche e complessi residenziali di nuova concezione estetica proprio lavorando sui due punti essenziali di forma e materia. Si tratta, come lui stesso scrive relativamente alla forma, di scelte plastiche nuove, rigorose, essenziali, forti che, realizzate con l’impiego del cemento e dell’intonaco grezzo suscitano un intenso impatto emotivo animando la discussione sia tra i colleghi architetti sia tra la gente della valle. Guasina ricorderà questo periodo dicendo: le mie opere o hanno suscitato amore a prima vista o avversione totale. Mai nessuno, quantomeno da queste parti, aveva osato realizzare un rifugio totalmente in calcestruzzo con il tetto orizzontale e pareti di vetro sulla vetta di una montagna. All’epoca i rifugi di montagna dovevano rigorosamente essere di sasso con il tetto a capanna e i balconi di legno dai quali, nella stagione estiva, far sporgere i necessari gerani, cosa del tutto irrealizzabile nel rifugio di Montefalcone. La sua architettura di ricerca risultò ai più come uno stacco troppo forte dal contesto in cui si inseriva. Cemento e forme non tradizionali apparvero come un allontanamento dall’elemento naturale. Invece è proprio vero il contrario: tutti gli edifici che Giorgio Guasina ha disegnato nascono da un’ispirazione colta dalla natura, anzi dal cosmo che contiene anche la natura e che ritroveremo in molte sue poesie: questa laguna (natura) di cielo (cosmo)/ è il mio mare (se stesso). Il rifugio di Montefalcone nasce come una nuvola posta sulla sommità del monte, una nuvola in cui si può salire e dal di dentro, come da una nuvola, ammirare ad angolo giro l’orizzonte infinito; la casa Sandri a l Lago di Castelvecchio è composta da due unità familiari a forma di triangolo rettangolo avvicinati ma non congiunti che ricalcano il triangolo del retrostante monte Marana. A Trissino l’industria orafa Bicego con la sovrapposizione ruotata di due rettangoli inscritti in un quadrato forma una stella e a Cereda la casa Michelin con il suo grande tetto concavo richiama l’alveo della valle al cui centro essa si trova. Guasina ha ben chiara l’autonomia dell’arte dal senso, le sue case non sono case belle perché assomigliano a una nuvola, a un monte, a una valle; le sue case sono belle per ragioni proprie, di intrinseca perfezione. L’idea che le ispira è solo un’intima seduzione, uno spunto creativo, un caso mentale, non altro, che tuttavia ha la forza di far entrare la sua architettura nel paesaggio non come semplice armonia ma come arricchimento del paesaggio stesso. E questo è anche il caso del grande complesso alberghiero residenziale dei Castiglieri a Recoaro Mille. I suoi ininterrotti poggioli di 100 metri circa che vanno da un capo all’altro dell’edificio vengono a comporre un lungo segno di matita, una sottolineatura ai piedi della catena montuosa, una freccia indicativa per richiamare e orientare l’occhio a contemplare l’anfiteatro delle montagne. Se è sempre forte l’attenzione per la natura, per il cosmo, lo è altrettanto il richiamo alla grande tradizione architettonica veneta, Carlo Scarpa certamente, nei materiali: cemento, intonaco non finito, utilizzo del legno chiaro per i serramenti che sono sempre disegnati, ma anche Palladio. Con il primo l’affinità è data dalla condivisione della grande lezione di Wright, che tuttavia Guasina radicalizza rispetto a Scarpa negandosi ogni forma di decoro, di arricchimento, di aggiunta non funzionale. Quel gigantismo, per esempio, che ritroviamo in alcune sue ville nel realizzare i bocchettoni del tetto e i pozzetti di scarico, quasi a formare vere e proprie fontane da cui farsi rapire dal suono dell’acqua, rientra pur esso in una coerente ottica funzionalista. Con Palladio, invece, è un dialogo ideale, una lezione iniziata e mai finita con il grande maestro. Per il mobilificio Lovato egli s’ispira a palazzo Chiericati: l’impianto di entrambi è dato da due grandi solidi rettangolari, uno con sviluppo orizzontale, l’altro verticale, che vengono letteralmente “scavati” al loro centro. Sebbene quello più antico sia in forme regolari, secondo il classicismo cinquecentesco, mentre il mobilificio Lovato è “scavato” con efficaci irregolarità che rendono un effetto vibrato alla facciata, la cosa voluta da entrambi gli architetti è proprio far vedere questa operazione di scavo, di sottrazione, di michelangiolesco togliere la materia in eccesso per liberare l’opera. Ma è con la casa Pozza della Camonda che il dialogo con l’antico maestro si fa ancora più serrato. In questo luogo, dicevamo, ancestrale della sua poetica di architetto, Guasina sfida il vertice dell’architettura palladiana. Dove Palladio aveva costruito lungo la riviera Berica una villa che richiamasse la perfezione del cerchio, egli disegna per i colli recoaresi una casa quadrata. La perfezione del cerchio e la perfezione del quadrato.

Come spesso accade per i grandi architetti, i committenti delle più importanti opere di Giorgio Guasina sono per lo più amici che condividono sensibilità artistica e cultura. Quell’architettura quindi che avrebbe dovuto cambiare le vedute della nostra valle rendendola più ricca di stimoli culturali e più moderna, non trova la risposta attesa. Guasina è accusato di portare cemento in montagna e case a forma di cubi tra le contrade in collina. Molti progetti rimangono irrealizzati come la casa Dario a Sovizzo, una casa per anziani e un albergo a Recoaro, la stazione a valle della seggiovia di Montefalcone, la stazione a monte, alla Pelegatta, per quello che avrebbe dovuto essere il nuovo centro di sport invernali sul Carega, Recoaro 2000, e, forse il suo progetto più ambizioso, la casa a forma di arco che avrebbe dovuto essere costruita a Trissino. Tuttavia la sua energia creativa non lo porta a venir meno al suo impegno di realizzare architettura “pensata”. Sono numerosi gli interventi parziali di recupero e di restyling che egli realizza, come la grande sala da pranzo e le tre colonne strutturali per l’albergo Seggiovia di Recoaro, interventi che ritroviamo similari nella sala da pranzo del ristorante da Bepi in località Casare di Recoaro Mille e nel colonnato del villino Cocco di Recoaro Terme. Sono anni, questi, di lavoro febbrile come progettista, tuttavia attorno alla metà degli anni Settanta due nuovi impegni lo coinvolgono allontanandolo dall’architettura: la politica, dove sarà vice sindaco e assessore ai Lavori Pubblici e all’Urbanistica, ruolo quest’ultimo che lo porterà ad accettare solo incarichi professionali immuni da qualsiasi possibile conflitto d’interesse tanto da esser costretto a scegliere la via dell’insegnamento come sua principale fonte di guadagno – sarà insegnate presso il liceo Artistico di Valdagno – e la passione per la scultura, dove, come lui stesso dirà, riversa la sua vocazione creativa. Probabilmente anche questa nuova esperienza d’insegnante d’arte lo motiva verso il design e la scultura.
Con la scultura è subito successo. Nell’arco di pochi anni i suoi personaggi e i suoi animali ricevono l’apprezzamento del pubblico. Come per l’architettura, essi nascono sempre dal disegno a matita sulla carta. Prima devono “vivere” nel bozzetto e solo a quella condizione diventeranno scultura. Con l’apertura della bottega d’arte, la produzione di opere in legno si amplia notevolmente e si diversifica non certo nella qualità del disegno e delle realizzazioni ma nella partecipazione emotiva, artistica all’opera da parte del suo autore. Ci sono, vogliamo dire, opere più pensate, più torturate, più sofferte, è il caso dei pannelli, delle grandi opere astratte, di alcuni superbi animali, quali il Bisonte, l’Ariete, il Toro… in cui Guasina non si ferma alla rappresentazione di un gesto ma cerca dentro l’essere intimo, profondo, autentico, vicino a opere più occasionali, più leggere, più dolci.
In un confronto di sintesi tra personaggi e animali notiamo come i primi siano rappresentazioni di azioni umane: il prendere la pioggia o il vento del nord, suonare il piano o il flauto, fuggire nei boschi, correre felici, studiare, contemplare l’infinito mentre gli animali sono quello che sono: il loro essere lupo, leone, toro, cavallo. Come a dirci che la meraviglia di essere uomo è in quello che si fa mentre la meraviglia di essere animale è in quello che si è. I personaggi sono leggeri e delicati; gli animali sono potenti e forti, dove, curiosa nota, i disegni preparatori dei primi sono più torturati, inquieti mentre quelli degli animali sono solo accennati, appena abbozzati. Pare che lo schizzo su carta dei personaggi sia il suo modo per “pensare” alla scultura che verrà; per gli animali invece l’idea sembra già impressa nella mente del loro autore che opera con fantasia esatta. I personaggi rimangono sculture di piccole proporzioni; gli animali arrivano anche a dimensioni medie. I personaggi sono un unico pezzo di legno o comunque rinviano a un segno unitario e continuo; gli animali sono assemblaggi di più pezzi uniti tra loro. Nei personaggi, che egli raffigura nella maggioranza dei casi con lo stesso identico profilo, il suo, a due tratti, fronte/naso e mento, profilo antico, jonico, anziché a tre tratti, fronte e naso e mento, della scultura rinascimentale, il movimento che ogni scultura evoca è dato dallo spingersi flessuoso in avanti, quasi a voler vincere il vento, forse il vento fatale che ruba il respiro e che ci trascina tutti verso l’abisso. Diversamente, negli animali il movimento è imprigionato in un solo gesto: lo sguardo di traverso del toro, quello a terra del bisonte nell’atto di attaccare, l’arrestarsi rapido della capra impaurita. I personaggi sono dolci, stilizzati: ogni monumentalità è negata dal loro essere filiformi, esili. Guasina, che aveva una certa vocazione alla monumentalità (si pensi ad alcuni particolari della sua architettura: il grande tetto della casa Michelin, i poggioli infiniti dei Castiglieri, i pozzetti di scarico dell’acqua piovana di casa Sandri) si guardava bene dal dare monumentalità all’uomo. Era cresciuto nell’epoca degli uomini con ambizioni “monumentali” e non li aveva amati. Preferiva riservare questo aspetto del suo talento per gli animali, dove la maestosità non è mai superbia perché non ve ne è consapevolezza.

Ma è con la grande scultura astratta che Guasina torna a pensare e a rivivere l’architettura dei prodigiosi anni ’70. Si tratta, come egli ha scritto, di forme plastiche che saldano la forza della ragione con l’eleganza, l’impronta vitale della materia organica. Così come accadeva nelle creazioni e nei sogni non realizzati dell’architettura. È un ritorno gioioso e libero: la scultura astratta gli permette di radicalizzare la propria ricerca estetica come non gli era sempre stato possibile costruendo case per altri. Il committente scegliendo un progettista sceglie il suo linguaggio, il suo stile architettonico; è libero di rifiutare un progetto ma non può pretendere di condizionarlo, scriveva quasi a giustificare una certa fama di architetto geniale, ma poco predisposto a concedere spazi alla committenza e al suo anelito creativo. Un’intransigenza che egli spiega: sarebbe come se commissionando un quadro a un pittore il committente pretendesse di imporre forme e colori. È un pensiero, questo, estremamente rivelatore del suo modo di considerare l’architettura come arte, la casa come “scultura del territorio”. Certo, non gli fu sempre possibile applicarlo. Nella progettazione di un edificio il committente mette sempre il suo zampino per aggiunte incongrue. È allora la scultura astratta che lo soccorre, liberandolo dall’ansia di trovare un inconciliabile punto di vista estetico con chicchessia. La scultura astratta e i grandi pannelli sono il campo libero in cui esprimere pienamente se stesso. Alcune sue opere come L’abbraccio, come Spicchi di sfere modulari, come Spirito del vento possono essere viste quasi come studi per edifici nuovi, radicali, estremi. Come studi per sculture, mai commissionate, per pubbliche piazze.

Nel 2009 esce in una tiratura minima da offrire agli amici Falò, la sua prima raccolta di poesie. La sigla editoriale è “L’orso di Camonda” mentre lo stampatore e il rilegatore sono il “Laboratorio di restauro di libri antichi e d’opere d’arte su carta” dell’amico di una vita Gaspare Pozza e proprietario della casa a forma di quadrato della Camonda, che Guasina aveva costruito nei primi anni ’70. Adesso sì, è la fase dell’Orso che si rintana dove non lascia impronta l’uomo/ l’uomo che temi, l’uomo che l’ha deluso sfiancando la sua positiva spinta creativa, che ha spento il suo ideale etico ancor prima che estetico di offrire tutto se stesso perché la valle fosse un luogo di pensiero e d’intelligenza, di bellezza non solo naturale. Le poesie con i pannelli, costruiti dall’assemblaggio di tavole di legno accuratamente scelte per la loro potenza espressiva e con le loro “ferite” insanabili, gridano la sua offesa, invocano la richiesta di un risarcimento almeno divino per aver creduto a quel suo sogno impossibile d’intelligenza e bellezza.
Nel 2010 uscirà per le stesse edizioni-simbolo dell’Orso di Camonda Frammenti, una raccolta di brevissimi racconti. Se per l’edizione delle poesie dell’anno precedente Guasina aveva scelto di arricchire il volume con alcune immagini dei pannelli, per la nuova raccolta di prose sceglie i disegni dei bozzetti dei personaggi e alcuni personaggi. Non sono scelte casuali. Perché se Guasina si lascia spesso ispirare dal caso, c’è sempre un ragionamento a seguire che ne vaglia il senso. E in questa scelta di usare i pannelli per le poesie e i personaggi per le prose, Guasina dà ulteriore chiarezza al suo discorso finale. Le ferite insanabili dei pannelli sono le stesse ferite evocate nelle poesie; la fragilità dei personaggi è la precarietà cronica della condizione umana raccontata nelle prose. Ma nel suo ultimo lavoro, la raccolta di poesie Sui marciapiedi di via Lelia del 2012, non ci sono né pannelli né personaggi, c’è solo poesia, solo parole, quelle mute che ho amato.

Flaubert ha scritto che la scrittura è architettura. Le poesie e le prose di Guasina ci ricordano il suo impegno di una vita. Per esempio nel dato che le prose e le poesie abbiano sempre, come punto di partenza, una precisa descrizione temporale. In poche righe siamo informati dell’ora e del luogo e del tempo atmosferico in cui avviene la storia. Guasina pare abbia bisogno di sapere dove sia il sole nella storia che ci racconta, così come faceva mettendo il primo segno di matita sul foglio/terreno per orientare la pianta di un edificio. Anche la lingua che egli usa è priva di artifici, di trovate fantasiose, di giochi di parole, di trucchi del mestiere. Egli cerca la parola giusta. Come il cemento, la sua è una lingua solida, sostantivale. Gli aggettivi, come i decori in architettura, sono pochissimi. La linea narrativa delle prose è unitaria, continua, coerente. I dialoghi sono minimi, ridotti a poche battute, e in molti racconti non ci sono nemmeno. Perfino i titoli sono diretti, mai a effetto, mai lirici, neppure nelle poesie. Il suono della sua lingua non ha cantilene. Guasina aspira all’esattezza. Alla parola “monda” perché è sempre lì che convergono la sua estetica ed etica.
Quindi più che di fiabesco, queste prose hanno il tono antico dell’affabulazione del nord, quella che si teneva nelle case dei poveri alla sera attorno al fuoco, condividendo storie di vita. Quelle di Guasina sono storie che raccontano gli anni della miseria, quando una guerra finiva e ne incominciava un’altra, e la gente povera era sempre più povera. Storie che aveva sentito da bambino, altre che ha vissuto da giovane quando sognava un paese diverso, quando si era ripromesso di fare la sua parte fino in fondo perché queste storie sprofondassero in un passato senza ritorno.
Ma gli artisti non riescono a cambiare il presente. L’arte è un beneficio che agisce nel tempo, poco alla volta, senza che i destinatari se ne accorgano. Quei lontani anni di miseria gli tornano alla mente e lui ne racconta le vicende perché nulla in profondo è cambiato, il povero ha sempre torto e come lui, l’artista.
Lui che aveva vissuto il sogno intimo di poter rendere più bella la sua terra, che fino all’ultimo era pronto a dare tutta la sua intelligenza alla causa, vi muore straniero, nella casa in cui era nato a Recoaro, la sola del centro ad avere tre lati affacciati su altrettante diverse vie del paese, come nemmeno la chiesa ha.

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